Femministɜ a chi? – Change the Future #5
Nota della redattrice: Userò la schwa, al plurale, per provare a vedere cosa succede, decostruendo il linguaggio, e quindi, le nostre menti. Per lasciare la voce e la penna a tutte le donne, in ogni loro forma.
“Il personale è politico”
Il portato culturale dellɜ femministɜ degli anni Settanta non è incasellabile in un solo termine – quel mostro a sette teste – che scansiamo, rifiutiamo e vogliamo tenere, a tutti i costi, lontano da noi. Ma diciamocelo: si chiama femminismo. Anzi, femminismi, perché sono tanti, differenti e belli così.
Non sono contagiosi, anche se ci fanno paura, non si trasmettono per via aerea o sessuale, ma possono portare a effetti indesiderati, anche gravi: le necessità di educazione affettiva, emotiva e sessuale nelle scuole, per evitare di fare i conti con lɜ mostri che noi stessɜ – come società – abbiamo creato, nascondendo sotto i cuscini le emozioni, i sentimenti e l’istinto femminista.
Gli anticoncezionali al maschilismo, al sessismo, al patriarcato – che nonostante le dichiarazioni degli ultimi mesi – esistono ancora e sono più forti che mai – si chiamano femminismi!
Ora possiamo nasconderci, spaventarci e far finta di non aver mai letto questa parola.
“Se tocan a una, respondemos todas.”
In Piazza Castello a Torino, il 25 novembre dell’anno corrente, piangiamo, urliamo, accendiamo fuochi, tiriamo fuori dai cassetti i nostri desideri, ricordiamo lɜ sorelle e fratelli amazzatɜ da una politica che non si interessa delle donne, delle marginate, delle escluse, delle persone con disabilità, delle persone transgender, non binarie, non cis, extracomunitarie, scomode…
Spero di non aver dimenticato nessunə, ma tutte donne che non stanno zittɜ, guastafeste, rivoluzionarɜ e rumorosɜ.
Ci facciamo sentire con le chiavi che tintinnano in aria – difesa da aggressorɜ e via libera dentro case che spesso diventano le tane dei lupi che ci vogliono mortɜ – ma noi vivimos sin miedo.
Sorelle, io vi credo.
“Cantamos sin miedo, pedimos justicia, gritamos por cada desaparecida.
Que retumbe fuerte: ¡Nos queremos vivas! ¡Que caiga con fuerza el feminicida! ¡Que caiga con fuerza el feminicida!”
Se lɜ primɜ femministɜ ci hanno lasciato qualcosa, quella per me più necessaria, è il loro manifesto, racchiudibile in una frase: “Il personale è politico”.
Carla Lonzi, nei primi anni Ottanta, in “Sputiamo su Hegel” (a cura di Annarosa Buttarelli, Ed. La Tartaruga, 1982), scrive:
“Il rischio di questi scritti è che vengano presi come punti teorici fermi mentre riflettono solo un modo iniziale per me di uscire allo scoperto, quello in cui prevaleva lo sdegno per essermi accorta che la cultura maschile in ogni suo aspetto aveva teorizzato l’inferiorità della donna. Per questo la sua inferiorizzazione appare del tutto naturale.
Le donne stesse accettano di considerarsi “seconde” se chi le convince sembra loro meritare la stima del genere umano: Marx, Lenin, Freud e tutti gli altri.
[…]
Sputiamo su Hegel l’ho scritto perché ero rimasta molto turbata constatando che quasi la totalità delle femministe italiane dava più credito alla lotta di classe che alla loro stessa oppressione”.
Carla Lonzi scrive questo estratto nel novembre 1973, mentre in Cile ha preso il potere Augusto Pinochet e, nel blocco occidentale e orientale, i comunismi traballano – vedendo davanti a loro il pericolo che la situazione politica possa prendere pieghe violente e oppressive come in America Latina – e si affacciano a un “comunismo dal volto umano”.
Qualche anno prima Stalin si avvicina alla sua caduta e muore, nel 1956: il comunismo di Mosca diventa fragile, si mette in discussione e si distendono i rapporti tra USA e URSS, al XX Congresso del PCUS si parla di destalinizzazione – “nell’Unione Sovietica e nei paesi satelliti dell’Europa dell’Est, il progressivo distacco dal rigore dittatoriale caratteristico del regime staliniano, prevalentemente improntato al culto della personalità, iniziatosi a partire dalla denuncia delle atrocità commesse da Stalin fatta da Nikita Sergeevič Kruscev (1894-1971) al XX Congresso del PCUS (febbraio 1956)”.
Un uomo che traballa, un dittatore che cade e una società – quella ungherese – che reagisce lottando e ribellandosi. L’invasione di Budapest, in Ungheria, come risposta.
La paura che possa succedere lo stesso, in altre parti del mondo, ad altri popoli in rivolta.
Nel 1968, Enrico Berlinguer, in Italia, afferma:
“Noi vogliamo una società socialista che sia fondata sul concorso di diverse forze politiche e sociali, che rispetti tutte le libertà, meno una: quella di sfruttare il lavoro di altri esseri umani. Perché questa libertà tutte le altre distrugge e rende vane” e pensa a “una via diversa per giungere al socialismo”, per comprendere come si possa scendere a patti con il blocco occidentale, fino a che non si parla del compromesso storico, ben spiegato nell’ultimo film di Andrea Segre: “La grande ambizione”.
Tra la lotta armata, la morte di Aldo Moro, l’inchiesta Mani Pulite, le uccisioni per mano mafiosa dei magistrati Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, si arriva al 2001 con il G8 di Genova, attraverso il movimento No Global legato al “The World Social Forum”, che crede che si ci sia ancora un’alternativa possibile al capitalismo.
Carlo Giuliani muore e un altro uomo diventa il simbolo di una lotta politica necessaria e violenta.
Pochi mesi dopo, siamo spettatorɜ del crollo delle Torri Gemelle a New York, lo stesso giorno dell’anniversario del Colpo di Stato in Cile, per citare gli avvenimenti più traumatizzanti e con più eco mediatica, come società.
Finalmente, nel 2015, a Buenos Aires, diventa una donna il simbolo di una lotta politica femminista.
Si chiama Chiara Paez, viene uccisa dal suo ragazzo, per nascondere la sua gravidanza. Poi, sepolta da chi pretendeva di amarla e di volerla difendere dalla sua stessa comunità.
Al grido: ¡Ni una menos! – Non una di meno! – nasce in Argentina, a Buenos Aires, il collettivo femminista che riunisce intorno a sè collettivi lontani, ma vicini nell’unione di intenti.
Io, nel frattempo, ho quasi diciotto anni e vivo in Paraguay, ospitata da una famiglia di Lambarè, un barrio poco lontano dalla capitale, Asunción, ed esco di casa ogni giorno con la paura di essere ammazzata.
Sono una donna, sono bionda, bianca e sembro ricca, agli occhi di uomini che sfrecciano in moto, facendosi chiamare “moto-chorros” e incombendo paura a tutto il vicinato.
Ci sono posti dove non posso andare, mezzi che non posso utilizzare e una lunga lista di “non” che riempiono le mie giornate.
Io, a volte, lo faccio lo stesso, infilo i soldi nel reggiseno e cammino da sola, perché non ci credo, perché non voglio credere che nel 2015 io debba rinunciare a qualcosa per paura di essere uccisa.
Mi dicono che sono giovane, ingenua e avventata.
Dò loro ragione, ma aggiungo: sono libera! O almeno, ora mi rendo conto, di aver pensato di esserlo.
Pochi anni prima, nel 2008, Pipa Baca viene ammazzata su una spiaggia in Turchia, mentre viaggia da sola per portare la pace, e numerose altre donne vengono uccise solo perché donne, sole, libere e coraggiose.
Ma allora queste quattro variabili non bastano, mi dico, oggi, a distanza di dieci anni da una delle esperienze che mi hanno permesso di essere chi sono oggi: femminista privilegiata.
Ma cosa ce ne facciamo del privilegio se non lottiamo?
“Que tiemble el Estado, los cielos, las calles.
Que teman los jueces y los judiciales. Hoy a las mujeres nos quitan la calma. Nos sembraron miedo, nos crecieron alas.
A cada minuto de cada semana. Nos roban amigas, nos matan hermanas. Destrozan sus cuerpos, las desaparecen.
No olviden sus nombres, por favor, señor presidente.
Por todas las compas marchando en Reforma. Por todas las morras peleando en Sonora. Por las comandantas luchando por Chiapas. Por todas las madres buscando en Tijuana.
Cantamos sin miedo, pedimos justicia.
Gritamos por cada desaparecida.
Que retumbe fuerte: ¡Nos queremos vivas!
¡Que caiga con fuerza el feminicida!
Yo todo lo incendio, yo todo lo rompo. Si un día algún fulano te apaga los ojos. Ya nada me calla, ya todo me sobra. Si tocan a una, respondemos todas.
Soy Claudia, soy Esther y soy Teresa. Soy Ingrid, soy Fabiola y soy Valeria. Soy la niña que subiste por la fuerza. Soy la madre que ahora llora por sus muertas. Y soy esta que te hará pagar las cuentas.
¡Justicia! ¡Justicia! ¡Justicia!
[…] Y retiemblen sus centros la tierra. Al sonoro rugir del amor. Y retiemblen sus centros la tierra. Al sonoro rugir del amor”.
In questo numero di Change the Future
Giorgia Meloni: l’antieroe del femminismo – di Mariateresa Sganga
Giustizia trasformativa e trama alternativa: dialogo con Giusi Palomba – di Federica Mangano
Un messaggio dal futuro: le cicatrici di una lotta che continua – di Alessia Bernardi
Donne e democrazia: il suffragio, e poi? – di Isabella Fusco
Il ruolo della letteratura nella lotta femminista – di Maria Cristina De Vita
L’Amica geniale (e femminista): l’attivismo letterario di Elena Ferrante – di Giulia d’Angelis
Oriana Fallaci: una femminista contro il femminismo? – di Giulia Sorbino
Donne ai margini: l’impatto dei cambiamenti climatici e l’esclusione dai processi decisionali – di Rebecca Bottaini
Essere moglie e madre è politico – di Lucrezia Agosta
Semplicemente donna – di Cleo Cantù
Siamo sicuri che Dio sia maschio? – di Elisa Morando
Quello che l’Occidente non sa sulle donne afghane – di Annamaria Bonasera
Resistenza e identità: il caso delle donne siriane – di Rosatea Rota
Femminismo intersezionale: l’eredità di Kimberlé Crenshaw oggi – di Filippo Rastelli
Sessualità al femminile: parliamone – di Vittoria Maddalena
Le fanzine come strumento di lotta politica femminista – di Federica Mangano
Le carriere femminili in ambito accademico – di Emanuele De Zanet
Non sono solo canzonette – di Zoe Cecchinato
Esercizio e violazione dell’intimità nell’educazione teatrale – di Carlotta D’Agostino
Piccola ode alle pagliacciate e alle scenate – di Sofia Ferrua