La “stretta di mano” di Corinto a chi migra

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In questi anni, la Grecia è diventata un crocevia per milioni di migranti e rifugiati in fuga da conflitti, povertà e instabilità nei loro paesi d’origine. Sebbene i media si siano da sempre concentrati sulla città di Atene e sulle principali isole dell’Egeo, una città come Corinto, situata sulla costa del Peloponneso, sta vivendo una realtà migratoria che spesso passa inosservata, ma non per questo meno drammatica.

Corinto, nota soprattutto per la sua antica importanza storica e culturale, si affaccia sul canale che separa il Peloponneso dalla Grecia continentale. Questo tratto geografico è diventato una delle tappe fondamentali per i migranti che cercano di proseguire il loro viaggio verso i paesi del nord Europa, spesso con la speranza di raggiungere nazioni come la Germania, il Belgio o la Francia. Snodo per chi cerca di attraversare il confine, la città si è diventata da tempo una delle zone in cui la difficoltà e il rischio sono più palpabili.

Negli ultimi anni, il numero di migranti che transitano attraverso Corinto è aumentato in maniera esponenziale, e la città si è trasformata in un punto di sosta dove molti si trovano a dover affrontare condizioni di vita precarie. La presenza di migranti nella zona, tuttavia, non è un fenomeno recente, ma si è intensificata con la crisi migratoria che ha colpito l’Europa a partire dal 2015. Gli arrivi, seppur diminuiti rispetto ai picchi di qualche anno fa, continuano a essere significativi, complicando la gestione delle risorse locali e creando un carico enorme sui servizi pubblici e sulle infrastrutture della città.

Corinto, che ha una popolazione di circa 30.000 abitanti, si trova ad affrontare una situazione di sovraffollamento nei suoi centri di accoglienza, come ad esempio il campo profughi costruito nel 2019, che sono spesso insufficienti rispetto alle necessità. Tale struttura, inizialmente concepita come temporanea, continua oggi ad accogliere i migranti, per lo più rifugiati provenienti da Siria, Afghanistan e Africa subsahariana, in una condizione di mancanza delle risorse fondamentali, come acqua potabile, cibo e servizi sanitari adeguati.

In questo contesto, le ONG e le organizzazioni internazionali svolgono un ruolo cruciale, ma anche loro sono spesso sopraffatte dalla portata della crisi. L’Unione Europea ha cercato di rispondere con finanziamenti e programmi di assistenza, ma la mancanza di una gestione centralizzata e coordinata ha lasciato molte aree, incluse quelle intorno a Corinto, a lottare per far fronte alle necessità immediate

Diversi progetti di accoglienza, in collaborazione con le istituzioni locali e le ONG, cercano di offrire formazione professionale, insegnamento della lingua e supporto psicologico ai migranti, contribuendo a dare loro una prospettiva di stabilità e inserimento nella società. 

Un esempio del sostegno offerto dalle ONG è il Community Center Cheirapsies, avviato nel 2020 grazie all’associazione Vasilika Moon a cui nel tempo si sono aggiunte anche Aletheia R.C.S. e One bridge to. Il centro si propone di fare quello che la parola greca “χειραψίες” (lett. stretta di mano) suggerisce: stringersi le mani, riconoscendosi simili o diversi. Il centro Cheirapsies è un luogo di incontro, che permette di accorciare le distanze e di condividere esperienze e momenti. 

Il progetto, formato da un Community Center e da una Community School, offre diversi servizi come distribuzioni alimentari, di vestiario e di generi di prima necessità, visite mediche settimanali, supporto psicosociale, attività didattiche e laboratori.

Abbiamo avuto l’opportunità di parlare con due figure chiave del progetto: Lorenzo Bergia, fondatore dell’iniziativa, e Matilde Bernabò, attuale coordinatrice del progetto.

Lorenzo Bergia ha avviato il centro nel 2020 con l’obiettivo di creare uno spazio di incontro tra migranti e comunità locale. 

Abbiamo parlato con lui del significato e degli obiettivi di Cheirapsies, nonché delle sfide e delle soddisfazioni legate alla gestione di un’iniziativa così ambiziosa.

Innanzitutto, com’è nata l’idea di questo progetto?

Quando noi abbiamo deciso di spostarci a Corinto era il 2020, in piena pandemia, e il campo profughi della città doveva essere inizialmente solo un luogo di transito in attesa di ulteriori ricollocamenti nelle altre città greche, dotate di campi per la lunga permanenza. Il primo spazio che abbiamo aperto è stata la scuola, perché era il primo bisogno emerso parlando con le persone del campo. Inizialmente offrivamo uno spazio educativo cinque giorni alla settimana, mentre la domenica aprivamo il centro come spazio cinema, sia per un pubblico adulto che per i bambini. Come conseguenza della grande partecipazione, si è deciso per l’apertura del Community Center, con la speranza che potesse diventare un luogo di scambio e che potesse essere una zona terza in cui nessuno è padrone e dove ognuno possa sentire proprio tale luogo. Fin dai primi tempi ci si è poi interrogati sulla possibilità di rendere il centro aperto a tutti, anche alla popolazione locale, perché in questi contesti spesso vi sono delle separazioni nette: i rifugiati da un lato, le ONG dall’altro e la popolazione locale. L’obbiettivo era quello quindi di creare uno spazio in cui tutte queste realtà potessero incontrarsi, condividere esperienze ed arricchirsi vicendevolmente.

Il progetto è sostenuto da tre diverse associazioni, com’è nata la vostra collaborazione?

“Le tre associazioni sono nate in Grecia e ne portano il ricordo nei loro nomi. Vasilika Moon ricorda il nome di un campo profughi, il primo in cui abbiamo iniziato ad operare; Aletheia è una parola greca che significa verità; e infine c’è One Bridge to, inizialmente chiamata One Bridge to Idomeni, prato al confine tra Grecia e Macedonia che durante la crisi migratoria del 2015-16 ha visto riversarsi quasi 22.000 persone. La collaborazione, che rappresenta un unicum nel panorama greco è nata in maniera molto spontanea. Vasilika Moon e Aletheia si sono sempre occupate di progetti nel nord della Grecia e per questo ci è sempre stata comunicazione, e collaborazione. A un certo è stato quindi quasi naturale decidere, per quanto riguarda i progetti in Grecia, di collaborare definitivamente.

Il progetto era sicuramente ambizioso, avete per questo riscontrato alcune difficoltà durante la prima fase?

Spostarsi è sempre difficile, soprattutto se si pensa che quello era il periodo della pandemia. Io sono arrivato a Corinto per la prima volta il 14 aprile 2020 e le mie possibilità di movimento erano garantite da speciali permessi dell’ONU, tutto il resto era però bloccato e chiuso. La popolazione locale si era mostrata contraria all’apertura del campo profughi in città, a causa soprattutto della sua vicinanza con il centro città, posizione del tutto inusuale per questo tipo di strutture, che generalmente sono ai margini dei centri abitati. C’era molta rabbia, frustrazione, scetticismo. Quando si trattava poi di cercare dei posti da affittare per poter aprire il centro anche elementi di razzismo sono venuti a galla: molti erano entusiasti di affittare il proprio locale, soprattutto ad un italiano, ma questo entusiasmo si smorzava nel momento in cui dicevamo quali erano i nostri obiettivi e le nostre idee. Gradualmente questo scettiscismo è stato scalfito, nonostante vi siano ancora persone che non condividono appieno questo tipo di progetto.

Un’ultima domanda: come viene finanziato e supportato il progetto? Vi sono benefici derivanti da fondi pubblici e/o europei?

La nostra scelta è stata quella di non beneficiare mai di fondi pubblici ed europei. Soprattutto per quanto riguarda i fondi europei, abbiamo infatti sempre pensato che accettare dei fondi da parti di istituzioni che finanziano agenzie come Frontex non fosse opportuno e in linea con i nostri valori e di conseguenza poco coerente con la nostra visione. Aprire un’ONG è una scelta politica (ma non partitica). Noi, infatti, non siamo d’accordo con la politica nazionale ed europea, e anzi stiamo andando in una direzione di accoglienza, di considerazione di ogni essere umano in quanto tale.

Matilde ci ha invece parlato delle attività quotidiane e del lavoro sul campo, raccontando in che modo il centro contribuisce concretamente al supporto psicologico, sociale e pratico per i rifugiati.

Come sei entrata in contatto con il progetto?

All’inizio ero partita per Lesbo, facendo volontariato con un’altra ONG. Durante il viaggio di ritorno ho poi fatto tappa a Salonicco, dove sapevo operava un’altra ONG: Vasilika Moon e ho così avuto l’occasione di conoscere Lorenzo. Successivamente ho deciso di prendere contatti con l’associazione, scoprendo che nel frattempo si erano spostati a Corinto e avevano avviato una collaborazione con Aletheia e One bridge.  Sono partita quindi inizialmente per un periodo come volontaria per Corinto. Dopo un periodo di tirocinio presso la sede di Atene si è presentata l’occasione di poter coordinare il progetto Cheirapsies e ho quindi deciso di fare domanda. 

Nel concreto, cosa significa coordinare un progetto come questo?

Il coordinamento è composto essenzialmente da due parti. Una prima parte di relazione e confronto con le persone che vivono nel campo e frequentano il centro, cercando quindi di comprendere e gestire le richieste e le necessità messe in lui dalle persone. Un secondo aspetto fondamentale è poi quello della gestione dei volontari. Vi è una parte più pratica riferita all’organizzazione dell’arrivo del volontario e all’assegnazione dei focal point. La parte fondamentale del lavoro è proprio l’unione di queste due parti all’apparenza separate: è importante che il lavoro dei volontari sia efficace e in grado di rispondere ai bisogni delle persone. Parte del mio lavoro qui è anche cercare di creare connessioni con altre associazioni che lavorano sul territorio greco, in modo da capire come poter collaborare e creare così nuovi progetti o nuove attività.

Hai parlato anche del lavoro dei volontari, la loro gestione come avviene?

Spesso i volontari arrivano e propongono nuove attività e quindi mi occupo anche di implementare e modificare le attività, basandomi sulla volontà e sulle capacità dei volontari che in quel momento sono presenti al Centro. La presenza del volontario è in realtà quello che mi permette di fare questo lavoro.

Le situazioni che si possono presentare sono diverse e non sempre facili anche da un punto di vista emotivo. Questo aspetto influenza in qualche modo la tua vita?

Tra tutte le domande questa è la più difficile a cui rispondere. Sicuramente da un punto di vista emotivo questo ha una grande influenza sulla mia vita quotidiana. Da un lato è un lavoro che mi porta tanta soddisfazione e gioia, anche grazie alla possibilità di relazionarmi sempre con persone diverse che siano le persone del campo o i volontari. Allo stesso tempo, non posso negare che non è sempre facile avere a che fare con situazioni difficili, in cui puoi solo provare ad alleviare questa attesa che porta gran parte delle persone. Spesso si ha infatti a che fare con persone che hanno dei passati molto difficili e che si trovano a volerli condividere con me o con i volontari per avere un po’ di sollievo. Sicuramente tutto questo ha un impatto a livello personale e mi porta spesso ad interrogarmi su come gestire tutte le emozioni che le persone ci creano. La sfida più grande di lavorare in questo contesto è proprio riuscire a non essere sopraffatti da queste emozioni.