La scuola del Noi a Napoli, un esempio di comunità educante
Il 26 novembre si è tenuta la conferenza di lancio del Patto Educativo di Comunità che coinvolge alcuni quartieri della città di Napoli, con la partecipazione di istituti scolastici, enti, associazioni, imprenditoria sociale e civismo attivo.
Già all’alba del 2000 si parlava di una restaurazione dell’apparato scolastico con la “Scuola delle tre I”: inglese – informatica – impresa. Sono questi gli anni in cui la società chiedeva alla scuola di formare futuri cittadini competenti.
A distanza di un ventennio dall’inizio dell’era della globalizzazione questo sistema educativo è andato in cortocircuito e la rivoluzione che si pensava si stesse compiendo non è mai iniziata.
L’Italia meridionale è il terreno su cui si giocano le partite più difficili, quelle dell’abbandono scolastico e della povertà educativa. Il tessuto sociale su cui si deve intervenire per prevenire e arginare questi fenomeni è composto da cittadini che vivono di espedienti, lavori a nero, salari sottopagati, persone che conoscono il ricatto della fame.
È in questa trama che il fallimento educativo incrimina la cecità dello Stato, ma anche il luogo in cui il Patto è ostinatamente nato.
Molte le scuole che in diversi punti della città di Napoli lavorano da anni sulla messa a punto di un dialogo partecipativo tra la scuola, l’alunno e la famiglia, trasformando la comunità da locale a educante.
È proprio questo l’obiettivo prospettico del Patto, la cui declinazione in diverse forme dipende da tre programmi nazionali: “Bella presenza” della Cooperativa Dedalus, “Futuro Prossimo” e “Fuoriclasse in movimento” di Save the Children Italia.
L’intera progettualità è stata scelta dall’impresa sociale “Con i bambini” nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, coinvolgendo complessivamente oltre 480.000 studenti-famiglie e 6.600 realtà tra terzo settore, enti, scuole, associazioni. Il Patto si dichiara così corpo partecipativo e in movimento tra i suoi sette pilastri guida:
- scuola come laboratorio sociale e di comunità;
- cura delle fragilità intesa come conoscenza delle difficoltà legate a un background migratorio (es. come ad esempio la barriera linguistica lingua), a persone con diverse abilità, a cosa fare nel caso di povertà abitativa, materiale e/o educativa;
- DAD e nuovo fenomeno di dispersione scolastica;
- interventi personalizzati, il Patto è un documento aperto;
- garantire azioni di supporto psico-sociale, pre e post lockdown;
- cittadinanza attiva, dialogare negli e con gli spazi pubblici;
- scuola aperta tutto il giorno.
Come si traducono questi punti? Il Patto inizia ufficialmente con le attività per studenti e studentesse, luoghi in cui il loro presente è messo in discussione attraverso nuovi metodi di apprendimento e nuove scuole di pensiero: educazione alle emozioni, alla cittadinanza attiva (cosa significa status e identità) e digitale (utilizzo responsabile dei social network, diritto a una corretta informazione); corsi di narrazione radiofonica o ancora promozione dei viaggi formativi all’estero. Anche il ruolo genitoriale non è esente dal ripensarsi in un percorso di recupero “gestionale” delle proprie responsabilità. A questo punto il Patto si è manifestato, ora tocca alle sue radici mobili farsi scegliere.