Non è la riforma fiscale ad agitare la Colombia, ma i malcontenti accumulati negli anni
Vicino all’Equatore ci sono colline e montagne sempre verdi, spiagge dai tramonti ciclamini, sorrisi e carnagioni dorate tutto l’anno. Tra i due oceani, il Pacifico a Ovest e l’Atlantico a Nord, c’è un paese ricchissimo per risorse naturali e per la sua Storia che accompagna tutti i giorni, nelle strade e mano nella mano – gli abitanti che ogni giorno si muovono con grande destrezza tra musiche allegre, profumi avvolgenti, ma anche politiche inumane e conflitti armati.
In Colombia crescono ogni giorno eleganti chicchi di caffè verdi e rossi pregiati e amati nel mondo, chicchi dai gusti corposi, intensi e dalle note acide sempre diverse. Ed è proprio nella diversità del paesaggio colombiano e del suo caffè che si riflettono i contrasti sociali violentissimi, esacerbati – come mai prima d’ora – dalla scorretta gestione della pandemia e dalla brutale violenza che torna dopo quarant’anni. Questa volta però, a impugnare le armi sono le forze dell’ordine che sopprimono, con violenza sistematica, gli studenti che chiedono al governo un futuro diverso.
Colombia è una ferita profonda che corre nelle strade diventate teatri di barbarie. È un paese che non si arrende e che oggi più che mai, mostra al mondo con dignità eroica la sua vera essenza, il suo amore per la memoria, per la cultura e per una giustizia sociale che gli studenti di un intero paese sono decisi a conquistare a ogni costo, sotto gli elicotteri e i proiettili delle forze dell’ordine, in mezzo ai carri armati, agli arresti arbitrari e alle sparizioni forzate.
Una giustizia sociale per cui, quarant’anni fa, il paese ha pagato un prezzo altissimo, seppellendo madri e figli, magistrati e avvocati, candidati alla presidenza e agenti di polizia che hanno dato la vita per contrastare l’ondata di dolore incommensurabile che ha causato Pablo Escobar.
Quarant’anni di dolore che il governo del presidente Ivan Duque sembra aver dimenticato: dal dicembre 2016 la Colombia è diventata, secondo i rapporti delle Nazioni Unite e di Amnesty International, il paese più pericoloso al mondo per i difensori dei diritti umani.
Quanto al presidente, si può dire che si sforzi nel convincere i colombiani che si stanno prendendo misure serie, senza però riuscire a scardinare l’impressione generale secondo cui il suo partito non stia dalla parte di queste vittime: la ministra dell’Interno Alicia Arango, in un tavolo di dialogo istituito dalla Commissione per la Verità e dalla Procura, ha sminuito con cinismo le uccisioni sistematiche dei difensori dei diritti umani, confrontandole con le morti per furti di telefoni, dichiarando “Nel 2019, su 12.577 (omicidi), 107 erano leader sociali, cioè l’uno per cento delle persone che uccidono in Colombia… qui muoiono più persone per furti di cellulari che difensori dei diritti umani”.
Le proteste iniziate lo scorso 28 aprile non sono quindi iniziate con la vergognosa riforma fiscale proposta dal governo Duque durante la terza e più grave ondata pandemica, né si sono concluse con il suo ritiro il 5 maggio, ma sono il frutto del malcontento sociale e dei revanscismi che si protraggono dall’inizio del suo mandato, nel 2018.