SPECIALE | Il risveglio dell’Odio
a cura di Soraya Avinotti, Martina Varriale, Ilaria Coppolecchia
Cosa c’è di più comune della parola? Il linguaggio è qualcosa con cui veniamo a contatto fin da quando nasciamo. Lo impariamo quasi automaticamente, quando sentiamo parlare le persone che ci stanno intorno.
Ormai da qualche tempo si è ripreso a discutere dell’influenza della lingua sul pensiero, dibattito che ha avuto inizio quando, nel 1940, Benjamin Lee Whorf pubblicò un articolo in cui lasciava intendere che la nostra madre lingua limita le capacità di pensiero. Più tardi lui stesso, insieme al suo maestro e linguista Edward Sapir, formulò la teoria che prese il nome di Ipotesi Sapir-Whorf o Teoria della relatività linguistica. Questa ipotesi afferma che lo sviluppo cognitivo di ciascun essere umano è influenzato anche dalla lingua che parla.
La teoria perse credibilità a causa della scarsità di prove a sostegno, ma oggi è tornata a essere studiata e i risultati sono abbastanza soddisfacenti. Dalle ricerche è infatti emerso che quando impariamo la nostra madrelingua acquisiamo anche determinati schemi di pensiero.
La lingua forma la nostra visione del mondo, scrive Guy Deutscher, autore di “Through the Language Glass”, “The Unfolding of Language” e ricercatore della School of Languages, Linguistics and Cultures dell’Università di Manchester. «Le diverse lingue influenzano le nostre menti in diversi modi, non per via di ciò che la nostra lingua ci permette di pensare, ma di ciò che ci obbliga a pensare».
Vuol dire anche, come affermato da Lera Boroditsky – professoressa di psicologia presso l’Università di Stanford e scienziata cognitiva – che: «Quando si impara una nuova lingua, non si impara soltanto un nuovo modo di parlare, ma inavvertitamente si impara anche un nuovo modo di pensare».
Certo, è ancora lunga la strada da fare per arrivare a trovare il punto d’incontro tra lingua e pensiero, però potremmo già evidenziare quanto una lingua e un determinato modo di utilizzarla possano avere più peso nelle nostre vite rispetto ciò che pensiamo.
Il linguaggio è ciò che ci distingue dagli animali e ha permesso la creazione della nostra società. Potremmo quindi pensare al linguaggio come a uno strumento positivo, ma in quanto tale il risultato che può produrre dipende dal modo in cui viene utilizzato. È infatti un’arma a doppio taglio, a volte può essere usata per il bene, ma a volte può invece fare del male.
Negli ultimi tempi, in special modo, si assiste a una diffusione massiccia, in particolare sul web, di quella che viene chiamata “lingua dell’odio”, il cui impatto sulle nostre vite è maggiore di quello che si potrebbe pensare.
Ma cos’è la Lingua dell’Odio?
La “lingua dell’odio” non è altro che una sorta di lingua antichissima, il cui unico scopo è la diffusione del disprezzo, della crudeltà, dell’odio e i cui obiettivi sono vari: a volte possono essere le donne, oppure gli stranieri, altre ancora può essere più generalmente qualunque persona non si rifaccia ad un preciso schema di “normalità”. È grazie alla diffusione di quest’ultima se sempre più frequentemente assistiamo ad episodi di razzismo, sessismo, omofobia che potremmo racchiudere dentro un’unica parola avvelenata: “DISCRIMINAZIONE”.
Sono tante le discriminazioni dove l’odio sta riacquistando potere. Noi stessi parliamo questa lingua, spesso senza farci caso. Parliamo la lingua dell’odio quando commentiamo a bassa voce le persone che passano per strada e diffondiamo la discriminazione. Parliamo la lingua dell’odio quando diciamo che una ragazza “se la cerca” per com’è vestita e diffondiamo il sessismo.
Riguardo il sessismo, bisogna specificare che esiste una forma estremamente sottile di violenza verbale, che non si esplicita con insulti e ingiurie. È un linguaggio che mortifica, che svalorizza, e che talvolta protrae inconsciamente stereotipi e immagini offensive nei confronti di una categoria già a lungo sminuita: le donne.
Stiamo parlando di sessismo linguistico, ovvero della tendenza androcentrica dei linguaggi e di tutte quelle espressioni, metafore, parole che continuano a discriminare il genere femminile. È uno di quei fenomeni di cui una persona raramente si accorge, non tanto per malafede, quanto perché semplicemente assuefatta e abituata alla lingua che le è stata insegnata fin da quando è nata.
Si cominciò a parlare di sessismo linguistico tra gli anni ’60 e ’70, quando i movimenti femministi americani studiarono il fenomeno e ne acquisirono maggior consapevolezza, iniziando a domandare un linguaggio meno discriminatorio. In Italia il tema divenne noto a partire dal 1987 grazie alla pubblicazione di un importantissimo libro, Il sessismo nella lingua italiana di Alma Sabatini, e un cambiamento storico lo si ebbe nel 1994, quando il dizionario Zanichelli inserì la declinazione al femminile di diversi termini maschili: fu così che nacquero l’avvocata, la ministra, l’ingegnera.
All’origine delle differenze nel linguaggio non ci sono motivi di ordine linguistico, bensì motivazioni sociali. La lingua che parliamo rispecchia la società in cui viviamo, e contribuisce a creare la realtà che ci circonda; e così, la superiorità maschile da sempre presente nella società rispecchia la superiorità del maschile nella struttura della lingua, e viceversa.
Facciamo qualche esempio. I mestieri sopracitati sono una delle dimostrazioni più palesi di sessismo linguistico: le loro versioni al femminile sono state aggiunte ai vocabolari solo ventisei anni fa, e tuttora sono ancora poco utilizzate, preferendo la declinazione al maschile anche quando i soggetti di cui si parla sono donne.
C’è un’ovvia spiegazione del perché prima non esistesse la versione femminile di questi termini: questi mestieri, così come altri di prestigio come il questore o il chirurgo, erano appannaggio pressoché esclusivamente maschile. Ma non c’è una spiegazione altrettanto lampante del perché molti siano ancora restii ad utilizzare una forma grammaticale dichiarata assolutamente corretta. Il motivo più comunemente addotto è quello della cacofonia: sentendo poco queste parole, esse risultano strane, scorrette, e così si continua a usare in automatico la versione maschile, senza percezione della valenza negativa che inducono a costruire.
Nel pensiero inconscio, retaggio di una cultura e una società maschiliste, si ritiene che declinando quel ruolo al femminile si perda valore e prestigio; questo nonostante l’aumento di donne anche in questi ambiti lavorativi.
Purtroppo, esistono anche moltissimi altri esempi. Il più semplice e “scontato” di tutti: quando ci si rivolge a un gruppo di persone si userà sempre e comunque il maschile, anche quando c’è una netta preponderanza femminile. Oppure: molte parole che al maschile hanno un’aura di autorevolezza, di prestigio, declinate al femminile cambiano di significato, perdendo queste connotazioni. Per esempio, “il governante”, che indica, appunto, chi governa una regione o una nazione, al femminile diventa “la governante”, ovvero una domestica; “il segretario”, che fa pensare a un segretario di partito o di un sindacato, quindi una figura di spicco, è diverso da “la segretaria”, che si riferisce all’impiegata che risponde alle mail e prende gli appuntamenti per dei capi.
Per non parlare, poi, di tutte quelle asimmetrie semantiche di quelle parole che al femminile significano – o alludono in maniera più o meno esplicita a – un insulto nella sfera sessuale (cosa tristemente diffusa nei confronti delle donne). Basti pensare, per esempio, alle differenze tra “accompagnatore” e “accompagnatrice”, tra “cortigiano” e “cortigiana”, tra “buon uomo” e “buona donna” (non per niente si insulta qualcuno dicendo “figlio di buona donna” e non il contrario…).
Tuttavia, la lingua dell’odio non si limita a mortificare gli individui solo in base al sesso, ma anche in base all’orientamento sessuale. Quando utilizziamo parole come «checca», o scriviamo commenti come «Froci, dovete morire» sotto i post di una famiglia omosessuale, com’è successo a Carlo e Christian, una coppia gay che ha deciso di raccontare della loro famiglia al maschile aprendo la propria pagina Facebook, Papà Per Scelta.
Alla nazionalità o al colore della pelle quando diciamo «tu qui non ti siedi» ad una bambina perché nera, proprio come è avvenuto ad Alessandria nel 2019, quando ad una bambina africana di 7 anni è stato vietato di sedersi perché di colore.
Quest’ultima notizia sembra riportarci all’apartheid, ricorda per certi versi la storia di Rosa Parks.
Grazie a quel famoso «no» ebbe inizio la lotta non violenta contro la politica di segregazione in vigore negli stati meridionali dell’USA (eredità dello schiavismo). Ieri come oggi, vediamo, come i fenomeni di discriminazione non siano soltanto sociali, bensì siano promossi molto spesso anche dalla politica. Il linguaggio infatti è un meccanismo subdolo, dai molteplici significati, non per forza espliciti. Grazie a questi meccanismi, una parola innocua può diventare complice dell’odio, come si vede nei titoli di alcuni giornali, ma anche nel linguaggio politico, diffuso oggigiorno anche sui Social Network, il più influente dei quali è Twitter.
È un dato di fatto che ormai il canale di comunicazione principale è costituito dal Web, il quale, di conseguenza, si fa anche portavoce di tutti i messaggi di odio che in passato più difficilmente trovavano modo di diffondersi in maniera così virale. In particolare, la svolta più determinante che questo fenomeno ha comportato è l’assunzione da parte dei politici dei social networks come nuovo luogo della democrazia, andando progressivamente a sostituire le procedure ufficiali e incrementando vertiginosamente l’importanza che un singolo tweet può assumere nell’ambito delle decisioni istituzionali.
Viene quindi da chiedersi se esiste un nesso tra la modernissima “politica social” ed il propagarsi di un linguaggio aggressivo nei confronti di quelle figure da sempre considerate più deboli all’interno della società, quali le donne, i disabili, i membri della comunità LGBTQ+ e ogni tipo di minoranza etnica o religiosa. La risposta a questa domanda è decisamente sì, come emerge da diversi studi che si sono occupati dell’analisi di tale fenomeno, sottolineando le modalità tramite cui si rafforza il legame tra la politica e la crescente presenza dell’hate speech sulla rete. L’incidenza assunta dall’indiretta legittimazione della violenza verbale da parte dei candidati politici e dei rappresentanti pubblici, al solo fine di ricevere più consensi, ha fatto sentire gli utenti autorizzati ad esternare le proprie idee senza filtri, anche quando brutalmente discriminatorie.
Secondo il Barometro dell’odio, monitoraggio eseguito da Amnesty International durante la campagna elettorale per le Europee del 2019, l’11,5% dei contenuti multimediali (post, tweet e commenti degli utenti) valutati durante la rilevazione è risultato offensivo. Accanto all’immigrazione, il bersaglio primario della cattiveria sui social sono diventate le ONG, e più in generale qualunque ente che si occupi di aiuti umanitari.
Le donne continuano ad essere al centro degli attacchi, ricevendo quasi il doppio degli insulti rispetto ai colleghi uomini (di cui 1 su 4 di tipo sessista).
Nessun partito è escluso dall’aver trattato i temi del dibattito politico con accezione negativa, ma il triste primato è detenuto dalla Lega, i cui esponenti sono fautori dei post che più hanno generato commenti aggressivi. È davvero utile risvegliare il lato meno razionale degli elettori tramite messaggi provocatori, distruggendo qualsiasi possibile terreno di confronto e contribuendo alla dilagante propagazione dell’odio e della violenza?
Anche Vox-Osservatorio italiano sui Diritti, che ha condotto un’indagine parallela a quella di Amnesty International tracciando nello stesso periodo la Mappa dell’Intolleranza 4.0 , ha sottolineato il legame tra la narrazione degli avvenimenti ad opera degli esponenti dei partiti principali e l’aumento sui social di episodi antisemiti, xenofobi, omofobi e sessisti.
Questa rinata lingua del diavolo non si limita però soltanto al linguaggio verbale. Siamo complici quando assistiamo a episodi di violenza e non facciamo nulla per impedirlo come accaduto a Balkisa Maiga, originaria del Mali ma italiana e residente a Roma che, dopo aver trovato sullo zerbino fuori casa insieme alla figlia banane marce, ha affermato:
«Mai come negli ultimi due anni mi sono sentita aggredita con così facilità. Le aggressioni verbali che ho vissuto per strada non le conto più, sui mezzi pubblici non ne parliamo. Non li prendo più. Oggi la gente sente di avere il permesso di fare tutto.»
Non è però la sola a pensarlo, spiega infatti Vittorio Lingiardi, professore ordinario di Psicologia Dinamica presso La Sapienza, Università di Roma, che ha contribuito alla Mappa 4.0:
«L’odiatore non è più l’anonimo leone da tastiera, quello che lancia il sasso di un tweet e poi nasconde la mano. Oggi si fa riconoscere. Vuole farsi riconoscere! Ha il petto in fuori e rivendica la ribalta. Non si sente più solo, ma legittimato. Si tratta di un cambiamento radicale e preoccupante. […] Si grida di più per due motivi: in modo calcolato per aggregare consenso attorno a sé e in modo scomposto per cercare di contenere la paura nei confronti di trasformazioni epocali che spaventano e con cui non si è capaci, affettivamente e cognitivamente, di misurarsi. Con i social network, basta un clic per moltiplicare l’effetto. E questo fa sentire ancora più forti. Si pensa di parlare al mondo, affacciati al proprio balcone, e questo purtroppo a volte ha l’effetto della benzina sul fuoco che trasforma in incendio quello che poteva essere un fuocherello.»
Ma cosa fare per cambiare tutto ciò?
Sono tutti dati che messi insieme fanno paura, sono aberranti, ma che possono essere fermati. Bisogna innanzitutto prendere consapevolezza di come questa lingua viene parlata e diffusa giornalmente, poiché il linguaggio non solo riproduce la realtà ma a sua volta la influenza. Prendere consapevolezza delle insidie che si nascondono in esso è un passaggio fondamentale per innescare il cambiamento, e laddove possiamo, bisogna combatterle in prima persona nel linguaggio che adoperiamo ogni giorno. Naturalmente è necessario agire nelle scuole, insegnando alle nuove generazioni ad abbandonare il linguaggio sessista, abituandole così a una lingua più rispettosa e inclusiva, ma purtroppo questo obiettivo sembra ancora lontano: secondo una ricerca realizzata da Irene Biemmi – ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze dell’educazione dell’Università di Firenze – sui libri di testo delle elementari i personaggi femminili sono sottorappresentati, spesso caratterizzati da aggettivi come pettegola e smorfiosa, e solo il 56% di loro lavora (tra l’altro, a loro sono associati 15 mestieri diversi, contro i 50 dei personaggi maschili).
Smettiamola di credere che il problema dell’Italia siano gli immigrati, i gay, i non-cristiani e qualsiasi persona non rientri nei “parametri”. Chiediamoci invece come fare a bloccare questo fenomeno. Come facciamo a bloccare lo spargersi dell’odio?
La risposta possiamo trovarla in persone come la consigliera comunale del Pd Vittoria Oneto, che come si legge nell’articolo sopra riportato, si è ribellata di fronte all’atto discriminatorio subito dalla bimba africana sull’autobus di Alessandria. Per evitare di diffondere l’odio, bisogna prendere consapevolezza, far conoscere quali sono i gesti che lo provocano e ribellarci ad esso, sia sui social che nella vita reale, diffondendo messaggi positivi, come cerca di fare la pagina Instagram Aprite il cervello, una delle pagine d’informazione e sensibilizzazione più seguite.
La pagina, gestita da un ragazzo di 17 anni – dimostrazione di come la differenza la possano fare non solo gli adulti – che abbiamo intervistato, è stata aperta nel giugno 2019 al fine di sensibilizzare, come @apriteilcervello afferma: «Condividevo molto spesso post inerenti ad argomenti sociali sul mio profilo privato, così ho pensato di aprire una pagina per poter esporre il mio punto di vista e sensibilizzare più persone possibili». Come abbiamo avuto modo di vedere grazie alla Mappa dell’Intolleranza, l’odio e l’hate speech da qualche tempo si concentrano sui social come Twitter o Instagram, dove quindi è importante che ci siano pagine gestite da persone motivate; abbiamo quindi chiesto all’admin cosa lo spingesse a mandarla avanti: «Credo che l’odio si manifesti sia tramite insulti verbali che addirittura nei casi più estremi tramite aggressioni fisiche. Oggi sono molto più diffusi insulti verbali, poiché viviamo in un’epoca nella quale abbiamo dimenticato che le parole hanno un peso e che talvolta possono ferire tanto quanto un pugno o un calcio. Ad oggi credo che l’odio si manifesti molto di più sul web, molte persone si sentono protette da quel cellulare e da quell’account fake che hanno aperto appositamente per insultare, molto probabilmente nella vita reale non riuscirebbero neanche a dire la metà di ciò che scrivono. So che è importante che sul web ci sia sensibilizzazione, la gente omofoba o razzista credo che sia relativamente poca, mentre credo che sia tantissima la gente che pur non essendo né omofoba né razzista, non interverrebbe mai davanti ad aggressioni o battute discriminatorie. Riuscire a sensibilizzare questa “fetta” di persone credo che sia ciò che mi spinge ad andare avanti con la pagina».
Anche lui sostiene la posizione di Vox-Osservatorio in merito al ruolo che la politica ha in questa faccenda: «La classe politica svolge un ruolo fondamentale. Parlamentari, ministri e così via rappresentano il nostro Paese e dovrebbero dare l’esempio ai cittadini. Inutile dire che se i politici sono i primi a diffondere odio e a usare parole di odio senza conseguenze, ci saranno molti cittadini che si sentiranno legittimati ad avere lo stesso comportamento».
Gli abbiamo chiesto un consiglio da dare a tutti coloro che vogliono affrontare questa lotta contro l’odio: «Non rimanere in silenzio, non aver paura di dire la loro attraverso i social media, molto spesso le persone che vorrebbero pubblicare anche semplici post contro l’omofobia e il razzismo, rimangono in silenzio solo per paura di essere giudicati. Se tutte queste persone iniziassero a farlo, scopriremmo che in realtà siamo più di quanto pensassimo a odiare questo tipo di discriminazione».
Chiedetevi in che tipo di Italia – in che tipo di mondo – volete vivere.
Iniziate a guardare con occhio critico ciò che vi circonda e se non vi piace, cercate di migliorarlo, partendo da quello che voi stessi potete fare. Quando le persone odiano, bisogna diffondere amore, tolleranza e libertà, perché come affermato da Rosa Parks: «Credo che siamo qui sul pianeta terra per vivere, crescere e fare il possibile per rendere questo mondo un posto migliore in cui tutte le persone possano godere della libertà».