L’Esame di Stato: una prova di maturità
Consulenza tecnica: Franca Da Re
Gianni Morandi con la sua celebre canzone “Uno su mille ce la fa” ci ricorda come l’Esame di Stato sia sempre stato considerato nell’immaginario pubblico italiano una vera e propria prova di maturità, un salto dal trampolino che chiede al tuffatore di entrare con autentica eleganza in acqua.
Storicamente le origini dell’Esame sono legate alla cosiddetta Riforma Gentile della Pubblica Istruzione. La prova finale destinata a liceali, futuri classe dirigente del Paese, che dovevano superare una articolata e complessa asseverazione finale del percorso di studi; si trattava di quattro prove scritte ed una orale su tutto il programma dell’intero corso di studio.
Giovanni Gentile ovviamente considerava istruzione solo ciò che rende un uomo elevato, erudito. Tale erudizione poteva avvenire solamente con lo studio del liceo classico o scientifico: solo questa piccola élite di frequentatori poteva infatti ambire a crescere: un ascensore sociale riservato solo ai migliori, per dirla in termini un po’ più attuali.
Lo studio della storia romana e del diritto erano e sono ancora oggi considerati una marcia in più, tant’è vero che la mentalità gentiliana di divisione del percorso di studi per livello di importanza in licei al vertice e alla base della piramide gli istituti professionali sono ancora una mentalità dominante.
I liceali infatti grazie a questo complicato esame hanno assunto una legittimazione sociale: a loro saranno assegnati quei ruoli del mondo delle professioni intellettuali così ambite e valorizzate.
Da tenere in debita considerazione è il periodo che l’Italia stava vivendo. Il dittatore dell’epoca, Benito Mussolini, spinse molto per questa forma di esame molto complessa proprio per usare la scuola come attività ideologica atta a convincere la popolazione di queste differenti classi di importanza nella cittadinanza, “dividi et impera” come recita la locuzione latina; l’educazione poi, in quei tempi, non era tutelata dall’articolo 33 della nostra Costituzione, ma bensì vincolata dal tesseramento al Partito Nazionale Fascista per coloro i quali volessero ambire a divenire educatori. La rigidità di un sistema scolastico costituì una vera e propria opera di inculturazione di massa agli ideali fascisti.
L’esame di Stato ideato dal ministero della pubblica istruzione era ed ha mantenuto un aspetto rituale, non solo formale. Si pensi ad esempio alla rigidità di quei tempi, al rigore di uno studente in piedi e posto davanti ad una allineata commissione che è pronta per mettere alla prova non lo studente ma il candidato. Il linguaggio è importante: se si considerasse l’esaminato come uno studente e quindi l’esame una valorizzazione del sapere appreso (siamo negli anni venti, parlare di competenze è ancora prematuro) si entrerebbe in un’ottica più umana e vicina al percorso di crescita dell’alunno. Il termine invece è uno sterile “candidato”, come a mettere in luce che per arrivare al tanto valorizzato titolo di studio sia necessario passare davanti ad una prova che non è solo formale ma incarna anche degli aspetti rituali.
La rigidità della bella scrittura e di un eloquio preciso e perfetto, come quello del condottiero del popolo, evidenziano un momento della vita del discente assolutamente completo e che incute(va) non poco timore.
Il tempo passa e fortunatamente il regime fascista lascia spazio ai Padri ed alle Madri Costituenti che comprendono in modo molto preciso come sia necessario garantire l’accessibilità a tutti di un percorso di istruzione ma allo stesso tempo mantenere il livello degli apprendimenti alla fine del percorso di studi; l’esame finale garantisce la poi tanto dibattuta validità del titolo di studio.
Gli articoli 33 e 34 della Costituzione della Repubblica (modificati nel tempo) sono da un lato norme programmatiche e dall’altro dispositive: purtroppo davanti a una povertà educativa ancora molto presente in differenti aree del Paese non si può ancora affermare che l’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, sia “veramente” obbligatoria e gratuita. Mense poco presenti, tempo pieno scolastico non uniforme e scarsità di comunicazione fra i servizi sociali con le istituzioni scolastiche sono solo alcuni dei problemi che rendono il dettato costituzionale ancora in via di prima acquisizione.
Queste due cornici storiche, una pre-repubblicana e l’altra della appena nata democrazia consentono di iniziare bene a capire il perchè di questo timore reverenziale verso l’esame e allo stesso lo slancio di un’altra parte della popolazione che su di esso non pone troppa attenzione, configurandolo come una tradizione che va mantenuta solo per quell’aspetto rituale e di affezione storica.
In tutto il mondo ci sono esami, ma non in tutto il mondo c’è l’Esame di Stato: anche per questo ci si aspetta che fra le due opinioni debba prevalere la prima, ma in considerazione anche del numero elevato di promozioni in numero percentuale (99%) ormai viene considerata come un ottenimento del diploma quasi automatico. Questo elevato numero di promossi cozza inevitabilmente con i dati statistici che l’Invalsi fornisce: la povertà educativa, specialmente nella composizione di un corretto testo in Italiano e nella capacità di svolgere le cosiddette “quattro operazioni” è in realtà testimone di come l’esame conclusivo del II° Ciclo di Istruzione non sia più la vera certificazione di competenze realmente acquisite.
Venendo ai nostri giorni, dopo due anni di mutamento della disciplina ordinaria degli Esami di Stato, il ministero dell’Istruzione e del merito ha deciso (anche per oggettivi motivi di tempo, c’è da considerare che con l’insediamento del 68° Governo della Repubblica in ottobre c’è stato il consueto cambio di vertici nei vari ministeri, incluso quello all’Istruzione e al Merito) di perseguire la via ordinaria disciplinata dal D.lgs. 13 aprile 2017, n.62.: il percorso formativo del triennio di studi assume un peso fino ad un massimo di 40 centesimi, gli altri 60 invece sono distribuiti in egual misura dalle due prove scritte (una d’Italiano, l’altra di indirizzo) e nel colloquio orale.
Le prove sono nazionali e comunicate la mattina stessa alle scuole grazie all’applicativo Sidi, un gestionale che collega tutte le istituzioni scolastiche fra loro e con l’amministrazione centrale e periferica. Questa modalità nel tempo (dicono al Ministero) si è rivelata la più sicura per tutelare la segretezza delle prove che vengono preparate mesi prima da appositi gruppi di lavoro dove lavorano dirigenti tecnici, membri dell’Indire e del mondo accademico).
Quest’anno verrà applicata una importante novità volta a valorizzare i percorsi di studio professionali: la seconda prova, per chi lavorano in tutto il curriculum di studi su codici ATECO, sarà elaborata dalle singole commissioni nel rispetto del quadro generale che disporrà il dicastero.
Riprendere l’Esame di Stato come già previsto dalla precedente normativa ha generato polemiche e confusioni.
Evitando sterili polemiche di fazione e restando in un ambito meramente tecnico è da evidenziare come il D.lgs 62/2017 in realtà non abbia mai trovato (e non lo troverà neanche quest’anno) piena applicazione. Il decreto infatti prevede che con apposita ordinanza ministeriale si possono calibrare il numero e la qualità delle discipline nelle seconde prove scritte. L’istituto Tecnico economico, ad esempio, nella sua articolazione “Amministrazione, finanza e marketing” (AFM) si troverà a dover svolgere la stessa prova dell’indirizzo “Relazioni internazionali per il marketing” (RIM): in questo modo vengono diminuite le competenze linguistiche del secondo indirizzo e mantenuta per entrambi la seconda prova in Economia aziendale.
Un attento studio della norma invece garantisce di capire che in realtà è possibile inserire due discipline nella seconda prova: nel caso in specie era doveroso inserire anche una lingua straniera visto che gli studenti dell’indirizzo Relazioni internazionali per il marketing affrontano con impegno tre lingue straniere, nell’indirizzo Amministrazione, finanza e marketing invece ci si limita a due.
Alla prova orale invece il ministero ha deciso di operare all’inverso: inserire docenti esterni di lingua per il corso AFM e interni alla RIM. Se devo valorizzare la propensione alla microlingua sarà meglio inserire esterni dove la si studia di più?
Non perché ci si fidi poco del docente interno ma in virtù del fatto che la valutazione e l’esame in sé sono sempre scuola di vita per chi li fa. La crescita è maggiore se espongo un argomento di notevole importanza a chi non conosco. Albert Einstein diceva che “Non hai veramente capito qualcosa finché non sei in grado di spiegarlo alla nonna”.
Questo piccola spiegazione di un esempio pratico e reale è la prova di come in realtà il decreto pluricitato è ancora in una fase di lenta e graduale applicazione proprio per capirne punti di forza e debolezza. Giova ricordare anche che dal punto di vista pedagogico la continuità didattica va intesa anche come continuità di valutazione, almeno in un tempo definito: è infatti impossibile poter capire il funzionamento di una operazione complessa come gli esami se ogni ministro che passa (durata media 1 anno e 6 mesi, quindi il tempo di capire di come funziona la macchina ed è ora di lasciare l’incarico) vuole necessariamente lasciare la sua traccia, il suo “io” nelle scelte del dicastero che è chiamato a servire.
Se è poco funzionale mantenere inalterato ad vitam un meccanismo è altrettanto irresponsabile cambiare e mettere in discussione tutto ciò che risulta poco condivisibile.