Podcast, community e giovani: intervista a Francesco Costa, vicedirettore de Il Post
di Irene Burlando e Matteo Scannavini
Negli ultimi anni il mondo del podcasting italiano è cresciuto, diventando una fucina di prodotti che sono entrati nella quotidianità delle persone e hanno costruito vere e proprie comunità. Sulla scia di questo fermento culturale è nato Ilpod, la prima edizione degli Italian Podcast Awards, un festival per premiare i migliori podcast italiani. L’evento è stato organizzato da Tlon, il duo di filosofi e scrittori formato da Andrea Colamedici e Maura Gancitano, e si è svolto il 30 aprile al Teatro Carcano di Milano.
In una giornata che ha visto, tra gli altri, gli interventi di Roberto Saviano e Cecilia Strada, il protagonista è stato il vicedirettore de Il Post Francesco Costa, convocato sul palco delle premiazioni per quattro volte. Il suo podcast Morning, in cui ogni mattina presenta la rassegna stampa del giorno, si è aggiudicato diversi riconoscimenti: miglior podcast per le categorie news e host (conduttore), miglior podcast votato dal pubblico, e, a pari merito con Cachemire e Cose molto umane, miglior podcast dell’anno.
Il pomeriggio precedente la premiazione ha visto diversi panel tematici in cui si sono confrontati gli autori dei podcast in gara. Ospite del panel news, Costa ha parlato di quanto sia centrale il bisogno d’informazione del pubblico nella fase di creazione di un podcast, e spiegato perché questo medium possa convivere senza conflitti con le altre forme di giornalismo: aggiunge un’alternativa in più in risposta alle diverse esigenze di fruizione del pubblico, ma il fine ultimo resta sempre informare le persone.
Prima della premiazione, abbiamo avuto l’occasione di intervistarlo.
Come giovani giornalisti, guardiamo con molta attenzione al podcast come strumento per la nostra generazione. Quali sono le tue considerazioni a riguardo? Morning e gli altri podcast del Post hanno successo nella fascia di pubblico giovanile?
Il podcast è uno strumento per informarsi molto utile, perché, a differenza di un testo o un video, non richiede la nostra attenzione esclusiva ma è duttile, si infila facilmente nelle nostre giornate. Inoltre, ascoltare l’episodio di un podcast di mezz’ora non comporta molta fatica, ma permette comunque di informarsi in modo approfondito. Riduce l’attrito che proveremmo nel leggere lo stesso contenuto in un articolo, che sarebbe lunghissimo. È anche un segno del fatto che siamo diventati più pigri.
Per quanto riguarda i dati del Post, vediamo che l’età del pubblico dei podcast copre uno spettro molto ampio, dai ragazzini fino a persone anziane che usano poco i social, ma la fascia 16-40 è molto significativa. Alla fine è un medium facile da usare e basato sul modo più antico che abbiamo per tramandarci le informazioni: parlare. Non credo sia la risposta al futuro dell’informazione, ma sicuramente è un ottimo strumento.
Vorrei chiederti una riflessione sul legame che c’è tra i podcast e il “fare comunità”. Ci siamo riuniti qui, oggi, per rafforzare la relazione che si costruisce, nel corso delle puntate, tra chi un podcast lo fa e chi lo ascolta.
Un podcast che fa informazione, in particolare, ha anche una responsabilità nei confronti di chi ascolta, perché si va a instaurare un legame di fiducia. Fiducia che diventa ancor più importante in questo periodo storico, vista l’attuale crisi del rapporto del pubblico con l’informazione.
Considerati tutti questi fattori e la responsabilità del tuo ruolo, quando ogni mattina registri una puntata di Morning, in funzione di quali principi scegli cosa raccontare e come raccontarlo?
Un podcast comico, se fa una brutta puntata, non ti ha fatto ridere. Un podcast di informazione se ha fatto una brutta puntata ti ha ingannato. È molto più grave.
Sono d’accordo con la questione della comunità. È centrale ai podcast in sé, che si basano molto sul rapporto di intimità che si crea tra chi parla e chi ascolta: l’ascolto avviene nelle orecchie, nelle cuffie, dove una voce ci parla con le sue vibrazioni, il suo registro, non è come leggere qualcosa. Inoltre, la creazione di community è una dimensione dell’attuale ecosistema dell’informazione: oggi nascono community intorno ai singoli giornalisti, ai content creator e ai giornali che hanno identità forti. Sono un bene preziosissimo, che si perde anche molto facilmente.
Quello che faccio io è cercare di essere onesto: non mi presento come una persona che non sbaglia mai e che non dice mai nulla che non abbia controllato cinquanta volte. Io metto sempre molto di me stesso e in questo anche tutte le imperfezioni del mio lavoro, che naturalmente in un podcast quotidiano sono tante. Mi riascolto solo dopo che la puntata è stata pubblicata, quindi è come se fosse quasi in diretta, perché quando monto tolgo soltanto le parti in cui mi sono impappinato.
L’obiettivo non è non sbagliare mai, ma cercare di fare il minor numero di errori possibile. Quando sbagli devi dirlo e spiegare perché è successo. Così, gli ascoltatori non penseranno che io sia il migliore giornalista del mondo, ma che io sia onesto con loro: questa è la chiave che crea quel tipo di rapporto di fiducia che permette che continuino ad ascoltarmi ogni mattina.
In un incontro dell’International Journalism Festival del 2018, concordavi con altri colleghi sul fatto che il podcast fosse ancora una realtà di nicchia, poco attraente per gli investimenti delle testate tradizionali. Allora tu e pochi altri facevate da apripista e oggi, pensando ad esempio a quanto un prodotto come Veleno sia stato sponsorizzato da Repubblica, la situazione è molto diversa. Come ti spieghi questa evoluzione? Te l’aspettavi?
Non posso dire che me l’aspettassi, ma avevo una speranza abbastanza fondata. L’arrivo del podcast in Italia non è stato l’invenzione di qualcuno, meno che mai mia, ma è seguito di qualche anno al ritorno dei podcast negli Stati Uniti. Che ci piaccia o no, soprattutto nel settore giornalistico, tutto quello che succede qui è già successo là. Quindi quando il mercato americano dei podcast è cresciuto era plausibile che avvenisse anche da noi. Anche se siamo lontani, le nostre culture hanno molto in comune.
Il pubblico si è espanso e sono aumentati gli investimenti. Una cosa invece mi ha stupito: a inizio pandemia, negli Stati Uniti ci si attendeva un brutto periodo per i podcast, perché in genere sono riprodotti mentre le persone guidano o si preparano per uscire di casa la mattina. Non solo non è successo, ma gli ascolti sono cresciuti tantissimo perché le persone avevano più tempo. Il fatto positivo è che anche dopo il ritorno alla vita di prima i podcast sono rimasti parte della loro routine.
Inoltre, il periodo di lockdown è stato terreno fertile non solo per la fruizione ma anche per la produzione di podcast da parte di tutti quei professionisti che lavoravano esibendosi dal vivo e hanno dovuto reinventarsi, come i comici.