Cos’è il “giornalismo seriale”: una chiacchierata con Gabriele Cruciata
La figura del giornalista – e il giornalismo in generale – è qualcosa di cui non possiamo fare a meno. Giornalismo è informare, è quindi anche formare, dare forma, spazio, luogo: per vivere nella società – e quindi tra esseri umani – è indispensabile conoscereil modo in cui la società funziona, le possibilità, i progetti. Maanche i crimini, le inchieste: le “belle” e le “brutte” notizie, i fatti, le idee.
Data l’importanza fondamentale, dunque, che ha il ruolo del giornalismo è anche importantissimo che questo “potere” venga esercitato con consapevolezza. Perché siamo (anche) ciò che leggiamo, le informazioni che riceviamo, i punti di vista che ascoltiamo. Ma come si esercita un potere con consapevolezza? Che strada bisogna seguire? Come si riconosce una notizia “consapevole” da una “non-notizia”? L’argomento è piuttosto complesso e ampio, e per districare qualche nodo noi di ChangeTheFuture ne abbiamo parlato con Gabriele Cruciata, collaboratore di Slow News, sito di informazione che sta sperimentando il “giornalismo seriale”.
Il giornalismo seriale è un nuovo “genere” di giornalismo, che si propone di provare a risolvere alcuni problemi del giornalismo oggi. Quali sono i problemi del giornalismo oggi e in che modo una proposta innovativa come quella del giornalismo seriale si propone di tentare di risolverli?
La questione nasce da un problema che volevamo risolvere: il framing, una caratteristica tipica di qualsiasi tipo di comunicazione (e di conseguenza necessariamente anche del giornalismo): è la “cornice” che viene data a una storia, ovvero la prospettiva che scegli di darle, i dettagli che metti in evidenza, i fatti sui quali ti concentri. È inevitabile che si finisca per ignorare tutto il resto – e così tutte le altre prospettive. Questo ha oggettivamente diversi vantaggi: è più facile attirare l’attenzione di chi legge, è più funzionale per fornire un’interpretazione dei fatti. Una storia più breve è più semplice e più fruibile. E il problema è proprio questo: per ottenere tutti i vantaggi di una notizia “semplice” – e veloce – si tende a ipersemplificare la realtà, mostrando un’unica prospettiva dei fatti. Noi pensiamo che questo sia un problema, così abbiamo iniziato a cercare una soluzione. Volevamo trovare un format che ci permettesse di aggirare l’ostacoloe presentare una notizia in maniera tale che al tempo stesso fosse sì fruibile ma anche ampia, attinente, insomma che rendesse giustizia alla realtà che voleva raccontare. Ed è venuta fuori questa proposta: il giornalismo seriale.
Cos’è il giornalismo seriale?
Pensiamo a una serie Netflix: ci sono tanti personaggi, no? E proprio perché ci sono tanti personaggi ci sono tanti episodi che permettono di approfondire i vari temi e le sottostorie. Un campo d’azione così ampio era esattamente quello che cercavamo, e così abbiamo elaborato questo nuovo formato che potesse superare il framing (abbiamo un po’ aggirato l’ostacolo). Ci tengo comunque a sottolineare che il framing non è mai del tutto eliminabile, anche perché fa proprio parte della nostra natura di esseri umani: quando raccontiamo una storia portiamo sempre più o meno consapevolmente il nostro sguardo, la nostra prospettiva, la nostra formazione.
Nel giornalismo seriale, dividendo una storia in tanti piccoli episodi, si riesce a raccontarla senza doverla “manomettere” mantenendo parallelamente anche un livello di attenzione più alto di quello che avrebbe un’unica lunga storia. Stiamo risolvendo anche il problema degli articoli “esca”?
La questione dei livelli di attenzione su Internet è reale – esistono diversi studi al riguardo – e questo è dovuto a una serie di fattori legati, per esempio, al modo in cui è fatto il nostro occhio: siccome tu su Internet ci puoi stare solo su un dispositivo che è retroilluminato la tua attenzione cala. Ed è anche per questo che i long-form non sono un prodotto di consumo sul web.
Gli articoli a cui ti riferisci (i cosiddetti “clickbait”) sono ovviamente un problema enorme, che è dovuto sostanzialmente al modello di business che c’è dietro. Voglio dire: se tu guadagni sulla base del numero di clic, è chiaro e inevitabile che il tuo scopo principale sarà attirare il maggior numero di clic. Una volta che ho cliccato, non ha nemmeno molta importanza quanto tempo trascorrerò sul link. L’importante è che io abbia cliccato, e così si innesca una serie di dinamiche veramente malsane, come possono essere i vari “titoli-esca”, le non-notizie, i gossip o le gare a chi la spara più grossa. E questi vanno soprattutto per la maggior parte del pubblico di Internet.
È vero anche, però, – e per fortuna! – che parlare in maniera univoca delle tendenze del pubblico di Internet significa inevitabilmente sbagliare: il pubblico di Internet è vastissimo, e al suo interno esistono delle “nicchie” – dei sottogruppi – che sono disposte ad investire tempo e denaro per avere accesso ad un’informazione molto più approfondita. In Italia sto pensando a SlowNews, ma non solo: esistono varie testate che offrono servizi elaborati e pensati. Mi viene in mente The Correspondent, una testata olandese che nel 2013 ha lanciato un sito che scrive pezzi molto molto lunghi (e che si leggono soltanto a pagamento); in Francia c’è un’altra testata – si chiama Mediapart – che da almeno dieci anni produce pezzi di giornalismo d’inchiesta molto molto approfonditi solo a pagamento. Adesso anche Repubblica ha iniziato a fare una cosa del genere: pur mantenendo un’impostazione “generalista” e gratuita ha aggiunto di recente un a sezione ad abbonamento che ti permette di accedere a una serie di podcast, long-form e inchieste molto più dettagliate.
Questo significa che sì, il livello di attenzione su Internet è basso, ma esistono delle nicchie che investono su questo altro tipo di giornalismo. E questo gli permette di esistere. Io credo che il futuro del giornalismo “serio” – non clickbait, non generalista – sia nelle nicchie. Il giornalismo generalista, proprio a causa dell’abbassamento dei livelli di attenzione online, sembra essere destinato a scomparire: chi vorrà informarsi lo farà e chi non sarà interessato a farlo continuerà senza. Il giornalismo seriale non è un prodotto “di massa”, questo no.
Una cosa che ho trovato molto bella, a proposito di SlowNews, è che però tu puoi scegliere quanto pagare. È un grande gesto di fiducia, e in questo modo l’informazione è disponibile a tutti
Esattamente! Ma questo fa parte di una visione particolare di quello che deve essere il giornalismo nella società. Se tu pensi che il giornalismo debba essere accessibile a tutti, puoi tranquillamente: dire guarda, il prezzo che secondo noi vale questo prodotto è 5, ma se tu hai soldi solo per pagare 1, metti 1. Se hai voglia di pagare centomila invece di 5, metti centomila. E hai ugualmente accesso agli stessi contenuti degli altri due. Ed è, come dici tu, un gesto di fiducia: perché tu potresti tranquillamente pagare sempre 1, invece c’è gente che sceglie di pagare centomila. E senza ricevere nessun trattamento speciale.
Abbiamo un po’ parlato di giornalismo e di informazione. C’è qualcosa che non ti ho chiesto che vorresti dirci?
Il giornalismo seriale alla fine è un formato, ed è un formato che – appunto perché è un formato – si utilizza per superare una serie di problemi che il giornalismo ha. Ma, come in tutte le cose dietro al formato e dietro al giornalismo, ci sono le persone: quello del fare giornalismo seriale non è solo un formato, è una forma mentis. È voler dire: “Ci sono dei problemi che io voglio evitare/superare”. Poi posso risolverli in moltissimi modi diversi, non soltanto utilizzando il formato “seriale”.
Io faccio il freelance, e lavoro sì parecchio con SlowNews, ma non lavoro soltanto con loro. Lavoro anche con altre testate giornalistiche, e quando scrivo per queste – questa è una cosa che mi viene chiesta costantemente! – non smetto di essere la stessa persona, non smetto di ragionare allo stesso modo. Sono sempre io! Con le mie idee e i miei principi. Il giornalismo seriale è una conseguenza di un modo preciso di vedere quello che è per me il giornalismo tutto. È il format che permette al meglio di esprimere quella forma mentis, ma non è l’unico: ultimamente mi sto specializzando anche nei podcast, che sono proprio di natura “seriali”. Quando tu fai un’intervista, un’inchiesta, un reportage puoi sempre rispettare i tuoi principi e la tua idea di giornalismo. Che per me semplicemente è il giornalismo inteso come servizio alla comunità.