Donne vittime due volte: femminicidio e mass media
Il femminicidio in Italia è un vero e proprio problema sociale, accentuato dalla disparità di genere presente all’interno della nostra società.
I femminicidi non sono una cosa fuori dall’ordinario: secondo i dati emessi dalla Polizia di Stato, nel 2019, l’80 per cento delle donne assassinate in Italia è stata uccisa da un partner, un ex o un familiare. Insomma, la donna deve temere chi ha le sue chiavi di casa, non gli sconosciuti trovati per strada.
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La violenza, in tutti i campi, ha quasi sempre un’unica ragione: la voglia di prevaricare sull’altro usando la forza bruta. Chi arriva ad uccidere una donna lo fa perché la sua cultura lo autorizza a sentirsi padrone delle donne e delle loro vite.
I mezzi di informazione hanno un ruolo fondamentale nella società odierna. Secondo la Convenzione di Istanbul del 2011, i media vengono considerati come area di intervento prioritaria in materia di contrasti e prevenzione alla violenza di genere eliminando “pregiudizi, costumi, tradizioni e qualsiasi pratica basata sull’idea di inferiorità della donna o su modelli stereotipati dei ruoli delle donne e degli uomini”.
Eppure, su numerosi casi di femminicidio in Italia (60 solo nel 2020), vengono raccontati dalla cronaca solo quelli che fanno più audience.
I giornali continuano a fomentare i luoghi comuni legati al movente, alle attenuanti, al contesto, intorno all’omicidio di una donna.
«L’amavo così tanto che l’ho ammazzata»
Gli assassini vengono descritti come uomini mossi da sentimenti di gelosia, di passione tormentata. La violenza viene romanticizzata, e il femminicidio anziché essere descritto come l’apice del potere e del possesso, è spesso categorizzato come un atto incontrollato e imprevedibile.
«Se l’è cercata»
Ci sono notizie distorte al punto tale da trasformare l’uomo, responsabile della violenza, nella vittima della situazione, e la donna in colei che in qualche modo “se l’è cercata”.
«Una triste storia di disperazione»
Il femminicidio non ha età. Vengono uccise minorenni e vengono uccise anziane.
E i giornalisti influiscono enormemente su questa percezione: «L’anziano, esasperato dall’enorme sofferenza della moglie malata di Alzheimer da anni e dalle difficoltà dell’intera famiglia, la ammazza di botte, poi prova a scappare. È una triste storia di disperazione».
Spesso viene usata una retorica che implica che le donne debbano essere sempre al servizio dell’uomo ma, al contrario, l’uomo non è obbligato ad essere al servizio della donna, e anzi, è scusato se la uccide.
«Un giallo scabroso»
Spesso vengono usate narrazioni morbose utili solo a rendere la cronaca nera più appetibile, con i dettagli, gli elementi terzi che fanno ancora più gola ai clik e alle views.
Vengono usate retoriche sbagliate per spiegare eventi, contesti e situazioni, e spesso le indagini dei giornali si spingono troppo in là nella vita privata delle vittime, per mantenere alto l’interesse del pubblico, con il rischio di favorire interpretazioni fuorvianti.
«Era un bravo ragazzo, un padre premuroso»
Capita anche che venga minimizzata la gravità del reato, magari intervistando vicini di casa o estranei che, vedendo la vicenda da fuori, raccontano elementi irrilevanti che però sono l’unica fonte informativa per il lettore. La donna, in questo modo, diventa vittima due volte: del reato prima, e poi della narrazione che di quella violenza viene resa pubblica.
La cronaca ci racconta solo quello che vogliamo sentire, ovvero che i femminicidi siano legati a storie individuali, contesti extra-ordinari, narrati nei dettagli, in modo che ognuno di noi possa avere una spiegazione accettabile e rassicurante del fenomeno.
C’è una tendenza a individualizzare e psicologizzare ogni donna o marito, ricercando colpe o ragioni interiori o interne allo specifico rapporto vittima/assassino, ricercando particolarità specifiche che negano l’evidenza di un problema sociale di cui quella storia è espressione.