Il ruolo dei dati nella gestione della pandemia
Torna allo speciale #datibenecomune
La pandemia da Coronavirus ha messo in evidenza – tra le tante urgenze – la rilevanza dei dati nei processi fondamentali delle società contemporanee.
Gli algoritmi che elaborano i dati stanno trasformando in modo radicale le relazioni di potere tra soggetti pubblici e privati, il dato è sovrano del nostro tempo e spazio e la potenza di calcolo sta diventando luogo di conflitto sociale.
È di queste settimane la campagna #datibenecomune in cui ONG, associazioni e testate giornalistiche chiedono al governo dati in formato aperto, consultabili ed elaborabili. Finora nessuna testata italiana aveva posto il problema dell’accesso ai dati ai fini di un’analisi autonoma degli stessi e questa richiesta è segno di una presa di coscienza del ruolo che hanno avuto i dati nella gestione della pandemia.
Nei processi di reazione alla crisi sanitaria, una buona gestione dei dati dei cittadini avrebbe posto le istituzioni nelle condizioni di creare un modello di risposta con un’effettiva capacità predittiva dei contagi, ma nei fatti si è registrata poca consapevolezza sul tema da parte della politica.
È mancata una politica di integrazione delle banche dati, di raccolta ed elaborazione dei dati significativi sotto il profilo territoriale. Parlare di tamponi nazionali senza un rapporto identico nelle località tra popolazione, numero di tamponi e cure rischia di fornire dati parziali, relativi e poco utili. È mancata l’integrazione dei dati teorici che facevano parlare le persone tra di loro in relazione alla prossimità, come ad esempio Immuni e i dati sull’intensità della mobilità, forniti principalmente da Google, Facebook e dagli operatori telefonici.
Andrea Crisanti – microbiologo e infettivologo – ha affermato che con la prima ondata Google e Facebook avevano dato la disponibilità al governo di condividere alcuni dati aggregati. “Questa disponibilità non è stata poi recepita poiché il comitato tecnico scientifico non ha saputo utilizzare la disponibilità né di Google né di Facebook.” Si sarebbe trattato, in caso d’uso, di dati resi disponibili per motivi di ricerca sui quali non avrebbe pesato la regolamentazione GDPR, la normativa europea sui dati personali.
I dati sono la rappresentazione plastica della nostra interazione sociale e in quanto tali ci possono aiutare a risolvere il problema della gestione della crisi sanitaria più efficacemente, usufruendo della loro potenza predittiva per un uso pubblico.
Google e Facebook hanno i profili sociali delle persone, profili che potrebbero divenire dei proxy – per calcolare il rischio di contagio – dal momento che la probabilità di infettarsi è una funzione delle persone che si incontrano e dei luoghi che si frequentano. Si andrebbero così a usare i dati dei giganti del web per delineare il livello di rischio individuale e di comunità.
Data l’innovazione del tema vi è però una carenza di figure competenti, soprattutto in ambito politico, in grado di gestire questi processi.
A luglio 2020 il Supervisore europeo per la protezione dei dati – Edps –ha lanciatoun allarme tanto drammatico quanto inascoltato, mettendo in luce una grande contraddizione dell’Unione Europea di questi anni e che la pandemia ha riproposto con più urgenza: “Bruxelles cerca di contrastare lo strapotere dei colossi statunitensi delle tecnologie proprio mentre si affida ad essi perché non esistono in Europa imprese in grado di fornire servizi simili. Il risultato – accusa il Supervisore europeo – è che oggi i dati personali, legali, finanziari, politici e commerciali dei 46 mila funzionari delle istituzioni europee, dalla Commissione alla Banca centrale europea, sono nelle mani di Microsoft. Lo sono sulla base di accordi che lasciano al gruppo fondato da Bill Gates ampia discrezionalità di trattarli ed esportarli dove crede, senza che le istituzioni europee ne abbiano sufficiente controllo”.
Evento che ancora una volta segnala l’urgenza di inserire al centro del dibattito politico il tema della negoziazione sociale della potenza di calcolo, terreno di bilanciamento di interessi.
La pandemia lancia un allarme, finora inascoltato: per difendere la democrazia è urgente riconsegnare il potere al pubblico, partendo anche dall’affidare la gestione dei nostri dati alle istituzioni e non a pochi privati e accrescendo parallelamente le competenze digitali dei cittadini.
Se, come afferma Paolo Giordano nel libro Nel contagio, “le epidemie prima ancora di essere emergenze mediche sono emergenze matematiche”, allora è necessario che le strategie di contenimento, basate sull’elaborazione di dati biologici e comportamentali in grado di stabilire visini predittive dei fenomeni epidemiologici, siano gestite direttamente dalle autorità sanitarie.
La seconda ondata pandemica ci ha insegnato che l’unico modo per contenere il virus è prevenire le dinamiche di contagio; e infatti il cosiddetto “miracolo Veneto” a inizio pandemia è stato conseguenza di una buona gestione dei dati attraverso una loro lettura anticipata e dinamica e combinando i dati ambientali con quelli diagnostici.
È di questi giorni l’appello di Crisanti a sfruttare i dati di Google: “Conviene fare un monitoraggio dei flussi, dei movimenti delle persone fra regioni e un monitoraggio dei luoghi e delle ore di assembramento. Però queste informazioni al momento noi non le abbiamo. Bisogna chiederli a chi ce li ha: i giganti del web. I dati in movimento di milioni di persone servono per contenere l’epidemia”.
La potenza di calcolo dei giganti del web rischia di sottrarre alle istituzioni pubbliche il controllo e la misura delle condizioni sanitarie dei cittadini.
Google sta lavorando a Baseline, un progetto che raccoglie informazioni sanitarie – genetiche e molecolari – su soggetti sani, per prevenire alcune malattie. Un grande passo dal punto di vista scientifico, ma che pone l’urgenza di un’etica e una negoziazione del dato dal momento che un’azienda privata come Google può possedere nel dettaglio la struttura genetica del corpo di milioni di cittadini.
“Saranno gli altri a fare la storia. So, inoltre, che non posso apparentemente giudicare questi altri. Dico soltanto che ci sono sulla terra flagelli e vittime, e che bisogna, per quanto è possibile, rifiutarsi di essere col flagello. Ho sentito tanti ragionamenti da farmi girar la testa, e che hanno fatto girare abbastanza altre teste da farle consentire all’assassinio, che ho capito come tutte le disgrazie degli uomini derivino dal non tenere un linguaggio chiaro,” scriveva Albert Camus nell’opera “La Peste”, dandoci una chiave di lettura utile anche per comprendere la grande questione della gestione dei dati in relazione, da un lato, ai rapporti di potere e, dall’altro, alla sicurezza dei cittadini.