Chi custodisce il custode? Il caso Assange
C’è chi ha paragonato l’eventuale arresto di Julian Assange ad una morte irreversibile del giornalismo stesso. Una visione secondo la quale l’arresto di Assange rappresenterebbe una chiusura violenta e definitiva di quella porta che ci mostrava i retroscena della nostra realtà; tra documenti segreti, riprese cancellate, file ‘protetti’. Quella serie di informazioni indicibili che Assange e WikiLeaks avevano scelto di urlare al mondo. Mettendoci la faccia e accogliendo il rischio tangibile – ora possiamo dire tangibilissimo – di perdere la libertà.
Giornalismo è diffusione di informazioni. Giornalismo serio è diffusione di informazioni che è necessario la comunità conosca, accuratamente verificate e complete, corredate da analisi delle stesse il più possibilmente oggettive e imparziali. Ne consegue inevitabilmente che il ruolo del giornalista – in qualità di detentore di questo potere determinante che è l’informazione – sia un ruolo di enorme responsabilità nei confronti della società in cui opera; dove tra l’altro spesso la notizia diventa merce ed è facilmente esposta a critiche, ritorsioni, ricatti, manipolazioni; perché secondo quale criterio vengono scelte le informazioni che è necessario che la comunità conosca? Qual è il limite, tra un’informazione che ci protegge e una che ci mette in pericolo?
La controversa figura di Julian Assange divide le folle. Il fondatore di WikiLeaks, la piattaforma che su carta dichiara di diffondere documenti di interesse pubblico, pare non aver convinto tutti delle sue buone intenzioni. Se infatti alcuni lo considerano un eroe, una sorta di Robin Hood del ventunesimo secolo, un sincero e disinteressato benefattore che ha tolto la maschera ai buonismi dei nostri governi, altri sono pronti a dichiararlo un pericoloso criminale, che con la diffusione di informazioni che si trovavano ragionevolmente sotto protezione ha messo a repentaglio la stessa sicurezza dei Governi interessati.
Ammesso che esista un limite, per quanto sottile, tra ciò che dobbiamo sapere e ciò che è necessario rimanga segreto – e può essere ragionevole che sia così, in vista del fatto che esistono informazioni che creerebbero soltanto scompiglio, e diffonderle senza alcuno scopo non è nell’interesse di nessuno e tantomeno in quello dei cittadini – sorge spontaneo domandarsi quand’è che un’informazione diventa ‘pericolosa’? E soprattutto, se questa informazione riguarda chi deve occuparsi di ‘proteggerne’ l’eventuale diffusione, chi ci assicura che questa sia davvero pericolosa? Chi disegna il limite? Chi controlla il custode?
Un breve riassunto degli eventi salienti della storia del fondatore di WikiLeaks:
2006: Il giornalista e programmatore australiano Julian Assange fonda WikiLeaks, organizzazione no-profit specializzata nella diffusione di informazioni segrete riguardanti guerre, spionaggio e corruzione e ritenute di interesse pubblico.
2010: Sulla piattaforma viene pubblicato, tra gli altri, uno documento che la renderà molto famosa: è un video registrato da un elicottero americano durante la guerra in Iran nel 2007 che mostra l’assassinio da parte di militari statunitensi di dodici civili disarmati e inermi.
Circa un mese dopo la diffusione del video le autorità americane arrestano Chelsea Manning, l’ex analista dell’esercito che ha condiviso con WikiLeaks migliaia di file su guerra in Afghanistan, guerra in Iraq, schede dei detenuti di Guantanamo, documenti della diplomazia USA.
Tre mesi dopo l’arresto di Manning inizia la lunga persecuzione di Assange da parte della procura svedese per un’accusa di violenza sessuale (nello specifico due donne lo accusarono di aver iniziato dei rapporti consenzienti in cui però lui avrebbe rifiutato l’uso del condom). Per evitare l’estradizione, che teme possa consegnarlo agli Stati Uniti, Assange si consegna alle autorità britanniche ed è costretto ai domiciliari.
WikiLeaks continua a pubblicare file sulla guerra in Iraq e cablo della diplomazia americana.
2012: La Gran Bretagna autorizza l’estradizione in Svezia. Assange ottiene asilo nell’ambasciata dell’Ecuador di Londra (di fatto violando i domiciliari). Resterà lì dentro per sette anni.
2010-2015: WikiLeaks è candidato per cinque volte consecutive al Premio Nobel per la Pace.
2016: Durante la campagna elettorale per le elezioni presidenziali USA WikiLeaks pubblica, tra gli altri documenti, le mail interne del capo della campagna elettorale di Hillary Clinton, che perderà le elezioni.
2017: Dopo averlo interrogato, la procura svedese archivia le indagini contro Assange. Ma la Corte Inglese ha ancora un mandato di cattura contro di lui per aver evaso gli arresti domiciliari, e il fondatore di WikiLeaks resta nell’ambasciata equadoregna per evitare l’estradizione negli Stati Uniti. Nel frattempo, Chelsea Manning viene rilasciata.
2019: Chelsea Manning viene nuovamente arrestata perché si è rifiutata di fronte al grand jury che sta conducendo l’inchiesta – coperta dal massimo segreto – a carico di Assange.
Lenín Moreno, l’attuale presidente dell’Ecuador, revoca l’asilo politico ad Assange. Il giornalista viene arrestato dalla polizia inglese.
Il dipartimento di Giustizia Usa dichiara 18 capi di accusa contro Assange, tra cui la violazione dell’Espionage Act del 1917 per avere cospirato per ottenere e pubblicato informazioni classificate (ovvero sottoposte a misure di protezione): se ritenuto colpevole rischia 10 anni per ogni capo d’accusa mosso nei suoi confronti.
2020 (oggi): A febbraio ha inizio il processo definitivo degli Stati Uniti per l’estradizione di Assange e in molti paesi vengono organizzate manifestazioni per la sua liberazione.
Quindi Assange è un eroe? Il paladino della giustizia? O un criminale? Una grave minaccia per la sicurezza? Ma soprattutto, cosa siamo disposti a sacrificare per questa sicurezza?
Idolatrare o condannare la persona di Assange in maniera assoluta sarebbe in entrambi i casi scorretto. Fuorviante. Chi scende in piazza reclamando la sua libertà reclama prima di tutto la libertà di stampa, il diritto dei cittadini a sapere, a informarsi, a conoscere. A ribellarsi. La libertà di azione del giornalismo e dei giornalisti. Perché dove finisce l’informazione, e con essa la consapevolezza, inizia l’ignoranza. Che è condanna definitiva alla servitù.
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