L’altra Africa di cui non si parla: intervista ad Andrea Spinelli Barrile
Articolo pubblicato il 31 marzo 2020
Rileggiamo il racconto di Andrea, che dopo 8 mesi ci sembra più attuale che mai. La sua curiosità, la meraviglia per un pezzo di mondo che ci sembra così lontano e la bellezza di essere insieme non smettono di stupirci.
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Hai mai sentito parlare di “Africa delle opportunità”? Probabilmente no. Capiamo come mai, con un esperto. Intervista ad Andrea Spinelli Barrile.
Andrea Spinelli Barrile si occupa di Africa da quasi dieci anni. Attraverso reportage e conferenze, cerca di raccontare tutti gli aspetti dell’Africa, contrastando la scarsa qualità dell’informazione.
Come è nato il desiderio di occuparti di Africa e come hai iniziato?
Ho iniziato nel 2012. Andavo a scovare violazioni dei diritti umani, di cui sono appassionato, per raccontarle. Così sono inciampato nella storia di un imprenditore italiano incarcerato e torturato in Guinea equatoriale. Presi a cuore questa storia, tanto che facevo da tramite per la sua famiglia con l’ambasciata, il Ministero degli esteri, eccetera, finché non è stato liberato. E allora viaggi, ti incuriosisci sempre di più, a effetto domino. Mi venivano raccontate storie talmente assurde che avevo bisogno di vederle, di verificarle. Per questo continuo a lavorare qui, anche se non è facile economicamente.
E adesso che cosa fai?
Adesso lavoro con ONG, mi occupo di processi internazionali, scrivo per Il manifesto e continuo a seguire il progetto Slownews, che ho contribuito a fondare. Ho collaborato con L’espresso, Africa e affari, Linkiesta, Africa rivista. Riporto una narrazione positiva del continente africano, senza minimizzare i problemi ma portando alla luce ciò che funziona.
Nel complesso, quanto male siamo informati, in Italia, su ciò che avviene quotidianamente nei Paesi africani?
In generale, molto. Lo scenario che ci viene descritto è spesso estremamente tragico, quindi solo una faccia della medaglia. Si parla solo di Paesi schiavi della povertà, di modelli economici predatori, e delle guerre, mentre i Paesi che si stanno rialzando e offrono tante opportunità restano nell’ombra.
Qual è la narrazione dell’Africa più spinta in Italia?
Ovviamente, come normale che sia, le ONG si focalizzano sulle storie drammatiche di povertà, guerra e arretratezza, essendo quello il loro focus d’azione. L’errore lo commettono i media che non approfondiscono. Ho tanti colleghi italiani che vivono in Mali, Kenya, Burkina Faso, che non vengono presi se non da giornali francofoni o inglesi.
Non ci sono voci fuori dal coro in questo senso?
Non sono molte, né molto conosciute, ma ci sono. Penso ad esempio ad Africa e affari, ribattezzato “il Jeune Afrique italiano”, che parla di economia ad un pubblico di imprese, professionisti e imprenditori. C’è un’agenzia stampa, Info Africa, o l’agenzia Nova, che trattano la politica dei diversi Paesi africani.
Qual è una notizia che andrebbe trattata maggiormente?
Ad oggi l’Italia è, grazie al sistema della cooperazione allo sviluppo, il terzo investitore al mondo in Africa, e il primo tra i Paesi europei. I progetti di cooperazione italiana sono volti, oltre che a intervenire in aree di crisi, a trasferire “know-hows” in realtà già avviate e funzionanti. Penso ad esempio ai progetti in Senegal o in Burkina Faso, che non sono i Paesi drammatici che ci vengono raccontati, malgrado alcune grandi problematiche.
Perché queste storie non vengono raccontate? E perché dovrebbero?
I motivi sono svariati, economici, culturali, storici o politici. Bisognerebbe raccontare del progetto di una zona comune africana, dove si potrà circolare senza visto e scambiare merci senza dazi. Sarà una sorta di Schengen versione africana, per un miliardo e mezzo di cittadini. Entro il 2020 la West African Monetary Zone progetta di istituire una moneta unica, chiamata Eco. Questi eventi cambiano la vita delle persone, l’abbiamo visto con l’euro. Per questo bisogna parlarne. Inoltre bisogna parlarne per invogliare gli italiani a fare impresa in Africa. L’Unione europea, al contrario dell’Africa, è in fase di invecchiamento, e una maggiore collaborazione tra i due continenti giova a entrambi economicamente. Se ieri alle conferenze in cui parlo di Africa c’erano quattro persone, oggi partecipano anche duecento imprenditori. E, accanto, tre giornalisti.
Su quale aspetto siamo peggio informati?
Direi quello economico. Io ora sono ad Addis Abeba, che è una metropoli, con un traffico pazzesco, un grande aeroporto, palazzi di 20 piani, la metro. Noi immaginiamo ancora l’Africa delle tribù, dei rituali,.. questa esiste, sì, ma è in via di estinzione. Le persone lasciano le zone rurali per andare a lavorare nelle metropoli, come nell’Italia degli anni ’60.
In quali zone dell’Africa sei stato? Quali sono più penalizzate dalla narrazione della stampa estera?
Sono stato in Marocco, Mozambico, Zimbabwe, Etiopia, Kenya, Liberia e Tunisia. Le realtà sono variegate. Liberia e Zimbabwe invece sono le peggio rappresentate dalla stampa. Tra il 2014 e il 2016 non si è parlato abbastanza di come la Liberia abbia sviluppato il vaccino per l’ebola. In Zimbabwe, nonostante l’inflazione corra, ci sono autostrade, ferrovie, gasdotti, eccetera. Non tutti sanno che in Africa c’è una grande richiesta di interventi di aziende italiane, e di know-how italiano, perché le infrastrutture sono in continuo sviluppo.
Cosa ti ha colpito di più dell’Africa?
Il caso del Rwanda, che nel ‘94 ha vissuto un terribile genocidio, nato dal conflitto interetnico tra Tutsi e Hutu, triste lascito della colonizzazione belga. Quando la strage finì, il Paese, dilaniato e popolato di orfani, era di fronte a un bivio: perpetuare l’odio reciproco, o applicare il metodo africano. Con enormi sforzi e resilienza, si è presa la seconda via. Oggi il Paese è pacificato perché vittima e carnefice sono stati spinti a parlarsi, a comprendersi e ad accettarsi. Oggi il Rwanda è la terza economia africana, è un hub tecnologico, le strade sono pulite, il traffico funziona, la politica abbastanza.
Cosa dovremmo sapere della situazione politica africana?
Nonostante l’Africa abbia ancora “dinosauri” al potere come Teodoro Obiang o Isaias Afewerki, alcune cose stanno cambiando. Proprio oggi parlavo con tre deputati, dello Zambia, del Mozambico e della Tanzania, che mi spiegavano: “Da parlamentari, abbiamo due compiti: rappresentare chi ci ha eletto e sorvegliare l’operato del governo”. Non tutti hanno questa visione, neanche in Europa. La nuova classe politica africana ha un’età media tra i 40 e i 45 anni, con parlamentari di 27 anni e tante donne. In Tanzania si punta a un egual numero di uomini e donne in Parlamento.
Che cosa emerge quando si parla direttamente con gli africani?
Quasi tutti ti dicono: “Non parliamo di Africa, parliamo di Afriche”. Si tratta di 55 Nazioni, con le rispettive economie, monete e culture. E il loro approccio alle cose è: “Va fatto questo? Ok, lo facciamo”. Con tutte le difficoltà, insieme. Per il concetto di Ubuntu, che permea diverse culture africane, io esisto e tu esisti nel momento in cui esistiamo entrambi, siamo pari, parte della stessa cosa. Noi invece guardiamo l’Africa come se la dovessimo colonizzare domani, risolvendo i problemi dall’alto della nostra superiorità. Si può fare impresa insieme, ma non impresa predatoria. L’entusiasmo dei giovani in questo senso è palpabile. C’è voglia di non restare indietro, di spaccare il mondo.
Come possiamo informarci meglio in fatto di Africa?
Twitter è d’aiuto, essendo molto usato in Africa già dalla primavera araba. Arrivare ai giornali africani non è facilissimo, gli algoritmi di ricerca di Google non aiutano, bisogna scavare. Si può poi entrare in contatto con la diaspora dei diversi Paesi. Le associazioni di africani emigrati in Italia organizzano spesso riunioni. Tramite loro si possono avere informazioni accurate e a volte testimonianze dirette, magari di parenti rimasti in patria. Ad esempio la comunità eritrea di Milano si raduna tutti i sabati a Largo marinai d’Italia, in 300/400 persone. Poi, naturalmente, viaggiare aiuta.
Secondo te, il problema sono più i cittadini italiani che non si interessano a sufficienza, o più la carenza di mezzi per farlo?
Il pubblico è “di bocca difficile”. Ciò, però, arriva dopo anni di narrazione stereotipica e monotematica. Se ti abituano a sentire solo il dramma, sempre uguale a se stesso, è inevitabile che tu ti aspetti solo quello. I media non narrano l’Africa, ma riportano slogan che la politica confeziona ad hoc. Oppure fanno pietismo indistinto. E cosa può provocare questo, se non la diffidenza, la paura, e la chiusura?
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