cimitero di Lampedusa

Il cimitero di Lampedusa

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Ho visitato il cimitero di Lampedusa il 2 ottobre scorso, nel primo pomeriggio. Mentre camminavo verso l’ingresso ancora in costruzione, fatto di calce e lamiere, tutto da rifinire, ho incontrato qualche bagnante che saliva dalla piccola spiaggia antistante l’ingresso del cimitero: a Lampedusa a inizio ottobre è fine estate, il cielo limpido in forte contrasto con il marmo delle lapidi. All’interno del cimitero vedevo il custode spuntare da un corridoio, buttare fiori appassiti nel cassonetto giallo, e poi scomparire di nuovo; oltre a lui c’era solo una signora di mezz’età, davanti alla tomba di Youssef Ali Kanneh. Sono stata di fianco a lei per qualche minuto, a osservare lo spazio riservato alle vittime: questo è il termine utilizzato nelle notizie di cronaca. Sono i morti nel Mar Mediterraneo, come Youssef. Sulle loro tombe ci sono le croci che l’artigiano lampedusano Francesco Tuccio realizza dando nuova vita al legno delle barche utilizzate dalle persone migranti. È un simbolo di speranza, come sembra suggerire anche la targa che riporta dei versi di Cesare Pavese, quasi nascosta da un grande cespuglio di fiori arancioni e gialli: «Quale mondo giaccia al di là di questo mare non so, ma ogni mare ha un’altra riva, e arriverò». 

Cimitero di Lampedusa, da una lapide. Cesare Pavese
Cimitero di Lampedusa, monumento a Cesare Pavese

Del cimitero di Lampedusa ho parlato qualche ora dopo con qualcuno che conosce bene i simboli e i significati di quel luogo. Ci siamo seduti su una panchina in Piazza Castello, tra le voci dei bambini che giocavano a rincorrersi, e ho ascoltato la storia del cimitero e delle persone che sono sepolte lì. 

«A Lampedusa c’è una piccola Spoon River». L’Antologia di Spoon River è una raccolta di poesie del poeta statunitense Edgar Lee Masters. Ogni poesia ha la struttura di un epitaffio e ricorda la vita dei residenti dell’immaginario paesino di Spoon River, ora sepolti nel cimitero locale. Perché «piccola»? Il cimitero di Lampedusa non è solo quello che si trova dirigendosi verso Cala Pisana, che si divide in una parte Vecchia e in una Nuova. Si trova vicino all’aeroporto, che è situato proprio tra la zona dove si trova il cimitero e quella dove nel 2008 è stata posta la Porta d’Europa, il monumento di Domenico Paladino.  Ma il cimitero vero è lo stesso Mar Mediterraneo: in un comunicato stampa pubblicato il 29 settembre scorso, la Fondazione ISMU ha fatto presente che «dal 2014 al 25 settembre 2022 sono stati quasi 25mila i migranti morti e dispersi nelle acque del Mar Mediterraneo nel tentativo di raggiungere l’Europa».

«Nel Mar Mediterraneo non c’è neanche una fossa comune, altrimenti questa restituirebbe le ossa, lì ci sono dei buchi neri che attraggono luce, e metaforicamente la nostra memoria. Il cimitero di Lampedusa sottrae dall’oblio le persone morte in mare, private della vita e anche della propria identità».

Il cimitero di Lampedusa infatti non è importante solo perché commemora, nel vero senso del termine composto di cŭm, “con” e memorāre, “ricordare” quasi fosse un “ricordare insieme”, ma soprattutto perché restituisce quella dignità violata e negata. 

Il cimitero di Lampedusa è un luogo irrequieto, quindi paradossale: accanto alle tombe dei lampedusani ci sono lapidi senza nome. «Una lapide senza nome è il punto massimo del razzismo, dell’oblio, dell’inciviltà, ma può anche rappresentare tutte le persone morte nel tentativo di raggiungere l’Europa, come fossero dei martiri della libertà. Su alcune lapidi si trova un simbolo, cioè una piuma cinta da un giro di filo spinato: non solo queste lapidi ricordano quei martiri, ma denunciano anche la loro morte ingiusta, inumana. Queste persone sono morte per affermare il diritto alla mobilità, quello di attraversare le frontiere alla ricerca di condizioni di vita migliori». 

I giornalisti che spesso arrivano a Lampedusa per documentare l’emergenza oppure la tragedia frequentano luoghi come il molo Favarolo – dove si legge lo slogan «Protect people not borders» su un muro – o l’hotspot, il Centro di Primo soccorso e Accoglienza (CPSA) di contrada Imbriacola dove però i giornalisti non possono entrare. Il cimitero di Lampedusa, se fosse frequentato dai professionisti dell’informazione, potrebbe veicolare un messaggio fondamentale, forse in grado di cambiare la narrazione del fenomeno migratorio: l’emergenza non è quando le persone arrivano vive, ma quando arrivano morte. Quando si avvia la ricerca dei parenti che cercano queste persone e che permette poi di scrivere un nome sulle lapidi. L’emergenza è soprattutto nei Paesi da dove scappa la maggior parte delle persone, come la Libia. 

Nel cimitero di Lampedusa c’è la tomba di una donna dove, sulla calce ancora fresca, è stata scritta la parola extracomunitaria e l’anno della morte, nient’altro. C’è la tomba di Welela, detenuta in Libia dove è stata raggiunta dall’esplosione di una bombola del gas. I libici l’hanno poi costretta ad affrontare il viaggio verso Lampedusa: è morta durante la traversata, il 16 aprile 2015. Viaggiava insieme a 100 persone, 26 delle quali ustionate gravemente. Il fratello di Welela, venuto a conoscenza della morte della sorella, stava cercando il luogo dove era stata sepolta. La donna era stata identificata come Welela dai suoi compagni di viaggio, dai volontari e dalla Guardia Costiera e questo ha reso possibile il ritrovamento del luogo della sepoltura – in un loculo di famiglia offerto da una donna lampedusana – e scrivere il suo nome sulla lapide prima vuota. 

Sulla lapide di Ester Ada, nata in Nigeria nel 1991 e morta nel 2009, si legge: «Per quattro interminabili giorni la Pinar rimane a 25 miglia a sud di Lampedusa, bloccata da un interminabile braccio di ferro tra governo maltese e governo italiano che si rifiutano di accogliere il mercantile. Soltanto il 20 aprile viene autorizzato l’ingresso della nave nelle acque territoriali italiani. I migranti finalmente accolti a Lampedusa». Il mercantile turco Pinar aveva soccorso l’imbarcazione in difficoltà e tratto in salvo 153 persone. A bordo dell’imbarcazione c’era anche il cadavere di Ester Ada. La sua tomba nel cimitero di Lampedusa è anche una denuncia nei confronti di alcune politiche di respingimento che trova la sua parola chiave nell’aggettivo interminabile, che ricorre due volte. 

Il ricordo intimo, laico di queste persone è simboleggiato dalla piuma cinta dal filo spinato, che – appunto – non è un simbolo religioso. La piuma è stata pensata e realizzata dopo la morte di Youssef. L’anno di nascita indicato sulla foto che si trova nella zona dove è sepolto è lo stesso di quello di morte, il 2020. Nato in Libia, morto nel Mar Mediterraneo. Poi la frase, scritta in inglese: «Perché così presto, figlio mio? Mamma e papà ti ameranno per sempre». Secondo Open Arms, ONG spagnola, Youssef è morto a causa dei ritardi nell’intervento delle autorità europee. La Procura della Repubblica di Agrigento ha aperto un fascicolo d’inchiesta a carico di ignoti per indagare sul naufragio in cui morirono Youssef e altre 5 persone. 

Ci può essere giustizia per le persone morte in mare, per quelle sepolte anonimamente, per i familiari che cercano i dispersi, per le persone torturate nelle prigioni, violentate nei Paesi da dove fuggono e poi sfruttate anche quando riescono a passare la frontiera, per esempio nel lavoro agricolo? 

«Il contrario di giustizia non è ingiustizia, è miseria. In un mondo giusto, tutti – poveri e ricchi – avrebbero gli stessi diritti e non ci sarebbero privilegi». Le sepolture e il simbolo della piuma denunciano questa ingiustizia, denunciano la presenza di una frontiera che accoglie alcuni e respinge altri. Il 3 ottobre, giornata della Memoria e dell’Accoglienza istituita il 16 marzo 2016 dal Senato italiano per commemorare i 368 morti nel naufragio del 3 ottobre 2013, avrà davvero senso quando ci sarà giustizia e la giustizia ci sarà quando non ci saranno più morti in mare né il paradosso inumano di una lapide senza nome.