“Oggi è la fame il vero problema di Haiti”
Intervista ad Alessia Maso, vicedirettrice di Ponte no profit, associazione che ha promosso la nascita e sostiene il Centre d’Eveil et Apprentissage di Leogane (CEAL), una scuola per ragazze e ragazzi con bisogni speciali (sordi, con disabilità mentale o con difficoltà di apprendimento diverse).
Quando è nata l’organizzazione Ponte no profit, di cosa si è occupata e di cosa si occupa attualmente ad Haiti?
L’associazione è nata dopo il terremoto del 2010, momento in cui io vivevo ad Haiti. C’era una situazione molto grave per cui abbiamo deciso, insieme alle persone del posto, che bisognasse fare qualcosa per aiutare i bambini che avevano perso casa nel terremoto o che comunque vivevano in case pericolanti. C’era poi la necessità di adoperarsi per i bambini con bisogni speciali, che non potevano andare a scuola perché vittime di pregiudizio a causa della loro disabilità. Attualmente la scuola fondata dall’associazione ospita circa ottanta studenti. Inizialmente l’associazione aveva sede solo in Italia, ora è anche in Svizzera e supporta i progetti ad Haiti. L’associazione si occupa soprattutto di raccolta fondi ma è impegnata in progetti di solidarietà, promozione della cultura haitiana e supporto alle famiglie che adottano bambini haitiani e che quindi vogliono conoscere meglio la loro cultura.
Ti trovavi già ad Haiti al momento del terremoto del 2010 oppure sei arrivata dopo? Cosa puoi raccontarci di quei momenti?
Nella città dove operiamo, Leogane, l’80% degli edifici è crollato: c’era ovunque qualcosa di distrutto. Ricordo che avevo la sabbia nei capelli alla fine di ogni giornata passata tra le macerie. La dimensione del terremoto del 2010 rispetto a quella di quest’anno è molto diversa, la differenza sta anche nel fatto che nel 2010 l’epicentro del terremoto, pur essendo in mare, era vicino a una zona densamente abitata. Quello di quest’anno è stato a sud, in una zona meno abitata e caratterizzata dalla presenza di abitazioni basse. Una zona geografica completamente diversa.
Quindi quali sono state le differenze principali tra i due terremoti, in termini di danni e di conseguenze?
La zona del sud del Paese colpita dall’ultimo terremoto non è stata colpita dallo scorso terremoto; quindi, i due terremoti non si sommano in termini di danni. Tuttavia, la situazione sociopolitica attuale è molto diversa da quella di dieci anni fa: in questo momento Haiti sta vivendo una delle peggiori crisi politiche, economiche e sociali degli ultimi anni. In meno di un anno il prezzo del riso è quadruplicato. Se prima c’erano persone che potevano permettersi un piatto di riso al giorno, ora possono permettersene uno ogni quattro giorni e questo è spaventoso. Non solo il riso, ma anche altri beni di prima necessità sono diventati più cari e anche meno disponibili. A questo si aggiunge la presenza delle bande armate e la correlata paura dei rapimenti che peggiora il tenore di vita degli abitanti di Haiti.
La zona colpita dal terremoto di quest’anno ha ricevuto aiuti sufficienti?
Ad Haiti si importa quasi tutto ma attualmente far uscire le merci dal porto e trasportarle nel Paese è molto difficile. Nel periodo dopo il terremoto ci sono state grosse difficoltà nel portare i beni di prima necessità nella zona del sud. Anche la nostra associazione ha organizzato una raccolta fondi ma tutt’ora gli operatori non sono riusciti a raggiungere la zona colpita dal terremoto proprio a causa dell’insicurezza del Paese.
Quali rischi corrono gli operatori umanitari in questo momento in cui le bande criminali stanno prendendo sempre più controllo di zone anche ampie del Paese?
Le bande si finanziano tramite i rapimenti per chiedere dei riscatti o bloccando le strade e chiedendo una somma per poter circolare. Anche per questo, al momento, nessuno è al sicuro nel Paese. Il gruppo di missionari che è stato rapito lo scorso ottobre faceva parte dell’associazione Christian Aid Ministries, presente da decenni ad Haiti. Non si trattava quindi di persone inesperte o arrivate da poco nel Paese, che magari non sapevano bene come muoversi. È possibile che gli stranieri siano bersagli più esposti perché il riscatto che si può chiedere è maggiore. Di solito non vengono comunicate le somme pagate per il rilascio degli ostaggi, almeno per quanto riguarda gli stranieri. Quando vengono rapiti dei cittadini haitiani di solito si legge sui giornali che il riscatto è stato pagato e talvolta anche la somma necessaria al rilascio degli ostaggi.
I terremoti hanno inciso sulla realizzazione dei progetti della vostra associazione?
Il problema non è il terremoto ma l’insicurezza del Paese. La nostra scuola, essendo una scuola per bambini con bisogni speciali, non raccoglie adesioni solo dalle zone limitrofe ma ci sono bambini che vengono anche da zone più distanti. Muoversi può essere pericoloso, in più spesso viene proclamato il cosiddetto peyi lock: si diffondono dei comunicati in cui si chiede alla popolazione di restare a casa e si indice una specie di sciopero generale dei trasporti e non solo. Il peyi lock, sebbene non sia emanato direttamente dal governo, è rispettato dalla popolazione e in particolare dai genitori che per non esporre i bambini al pericolo preferiscono non mandarli a scuola. A questo va unito il fatto che il prezzo della benzina è aumentato in modo esponenziale negli ultimi anni ad Haiti per cui spesso le famiglie non possono sostenere questa spesa.
Come è vissuta dalla popolazione la pandemia di COVID-19?
Il coronavirus attualmente non sembra preoccupare molto la popolazione. All’inizio della pandemia abbiamo tradotto una guida per i bambini della scuola che invece avvertivano questa paura e non capivano cosa stesse succedendo, non capivano perché non potevano andare più a scuola.
È vero che esiste una sorta di sfiducia della popolazione nei confronti del vaccino contro il COVID-19?
Non direi che ci sia una resistenza della popolazione al vaccino. Data la scarsità dei vaccini, il dubbio se vaccinarsi o meno spesso non si pone proprio. In realtà, la popolazione sarebbe disposta e desiderosa di avere un accesso alle cure e alla prevenzione maggiore, ma ad oggi spesso gli ospedali sono costretti a tenere le porte chiuse a causa della situazione politica ed economica in cui verte Paese; quindi, gli haitiani non hanno accesso neanche alle cure di base.
La prospettiva più favorevole oggi è emigrare dal Paese?
Sì, tantissime persone cercano di emigrare nonostante le numerose difficoltà che questo comporta. Tutti quelli che avevano maggiori possibilità, soprattutto economiche, di rifugiarsi altrove l’hanno fatto. Abbiamo anche un esempio diretto di questa tendenza della popolazione perché volevamo comprare un terreno per ampliare gli spazi della scuola ma non siamo più riusciti a contattare i proprietari che abbiamo saputo essere emigrati negli Stati Uniti. Anche la scelta di emigrare è una conseguenza della situazione di insicurezza del Paese che ha iniziato a peggiorare già da prima del terremoto di agosto.
La richiesta di iscrizione nella scuola fondata dalla vostra associazione invece è in crescita oppure no?
La domanda per la nostra scuola è in continua crescita anche perché prima le famiglie mandavano i propri figli in delle strutture presenti nella capitale che offrivano servizi simili e li andavano a trovare o a prendere solo di tanto in tanto. Adesso, in seguito alla situazione di limitata mobilità, raccogliamo adesioni da persone anche già scolarizzate che però non possono raggiungere le strutture della capitale.
Finito il percorso presso la vostra scuola che prospettive hanno gli studenti?
È difficile prevederlo o dare una risposta univoca. Per esempio, due ragazze che hanno finito il percorso presso la nostra scuola, che arriva fino al sesto anno, sono state inserite in una scuola superiore con l’accompagnamento di un assistente sordomuto. Essere sordomuti è una grave difficoltà ad Haiti perché c’è una radicata credenza secondo cui i sordomuti “portino sfortuna” o “siano delle spie”. Per questo c’è bisogno di essere inseriti in contesti protetti che possano aiutare i ragazzi anche nell’inserimento nella società o nel mondo del lavoro.
Il vostro lavoro, quindi, non è solo un lavoro mirato all’educazione in senso stretto ma anche un lavoro mirato all’inserimento dei ragazzi nella comunità.
Sì e su questo fronte abbiamo avuto soddisfazioni enormi, perché alcuni ragazzi che appena arrivati da noi stavano sempre in disparte, sempre negli angoli, che sono il posto dove si è meno esposti e ci si sente più al sicuro, sono diventati poi molto espansivi e si sentono protetti, non hanno più paura né a scuola né fuori dalla scuola.
La direttrice della scuola ha anche avviato dei progetti che permettono a ragazzi delle scuole superiori locali di svolgere il periodo di stage presso la nostra scuola come assistenti, questo per far conoscere la diversità e creare quel contatto diretto che fa superare il pregiudizio che esiste nei confronti dei ragazzi sordomuti e non solo. Inizialmente eravamo noi come associazione che dovevamo andare a prendere i bambini nelle loro abitazioni perché i genitori si vergognavano dei loro figli e quindi li tenevano a casa. Da qualche tempo, invece, i genitori si sono accordati per pagare una piccola retta mensile che gestisce proprio il comitato genitori.
Quando è stata l’ultima volta che sei stata ad Haiti e quanto è cambiata la situazione da quel momento?
Sono stata ad Haiti nel 2018 per l’ultima volta. Tornare lì oggi e raggiungere Leogane partendo dall’aeroporto sarebbe troppo pericoloso perché significherebbe attraversare delle zone tra le più insicure per gli operatori umanitari e non solo. La situazione, soprattutto in termini di sicurezza alimentare, è peggiorata tantissimo e la cosa di cui si parla pochissimo è proprio questo discorso dell’inflazione, dell’aumento dei costi del cibo e dell’energia che ha conseguenze dirette e gravissime sui cittadini. Attualmente è la fame il vero problema di Haiti.