L’archivio storico di Lampedusa: il racconto del fondatore Nino
L’Archivio Storico Lampedusa si trova verso la fine di via Roma, poco prima della traversa che porta a Piazza Castello. Si tratta di un’associazione culturale fondata e gestita da Nino, un uomo elegante e gentile. Quando gli chiedo la possibilità di fargli delle domande su Lampedusa e sul suo lavoro non esita un momento, mi accoglie nel piccolo Archivio curato nei dettagli: foto, carte geografiche dell’isola, pannelli con ricostruzioni storiche e musica classica in sottofondo. Mi fa accomodare alla scrivania e si siede dall’altro lato. Chiede se l’aria condizionata sia troppo alta ma non accenna al volume della musica che sovrasta le sue parole.
Nino mi parla a lungo della storia di Lampedusa e dei suoi abitanti in modo preciso e semplice, ma senza semplificare.
Il racconto di Nino comincia da un fatto: a Lampedusa non c’è un ospedale e uno dei disagi che ne consegue è che sull’isola non possono nascere bambini, infatti da sempre i futuri genitori, quando si avvicina la data prevista per il parto, si trasferiscono a Palermo. «L’assenza di un ospedale è uno dei problemi più seri di Lampedusa. Per i casi più gravi c’è un elisoccorso, ma anche per i piccoli interventi chirurgici o per fare una risonanza magnetica bisogna andare fuori. Non è raro che i lampedusani convivano con il pensiero di doversi curare e che per farlo debbano spendere dei soldi che risparmiano appositamente» spiega.
Il turismo è ad oggi la principale opportunità di guadagno per i lampedusani, mi spiega. Da gennaio ad agosto 2022 per l’aeroporto di Lampedusa sono passate più di 222 mila persone. Una consuetudine piuttosto diffusa è quella di investire i soldi incassati durante l’estate per acquistare mezzi che possano essere utili a favorire la permanenza dei turisti oppure per le nuove costruzioni. L’impressione dei commercianti è che questa crescita non sia destinata ad arrestarsi e la speranza è che ogni anno arrivino più turisti. Non c’è però un piano per rendere il turismo sostenibile: per esempio, nel 2021 è stato necessario limitare l’accesso alla Spiaggia dei Conigli per tutelare l’ambiente. Gli accessi alla spiaggia sono stati suddivisi in due fasce orarie accessibili a 550 persone al massimo per ogni turno. A fine ottobre il clima è ancora estivo, ci sono ancora i turisti che non si rassegnano alla fine della bella stagione in altre zone d’Italia. Si tratta di un argomento molto serio soprattutto perché l’esaltazione della Lampedusa turistica, quindi la possibilità di attirare sempre più persone, secondo alcuni nel tempo è stata offuscata dalla narrazione – spesso svilente – della Lampedusa come meta della rotta migratoria che attraversa il Mar Mediterraneo.
«Il fenomeno migratorio fa parte della storia di Lampedusa» dice Nino. Sono stati due gli anni critici e che hanno cambiato la visione dei lampedusani e quindi il loro approccio alle migrazioni: il 2011 e il 2013.
2011: «L’anno nero di Lampedusa»
Il 2011 è stato «l’anno nero di Lampedusa», come scrisse Federico Geremicca su La Stampa. Un anno in cui si è registrato da un lato uno straordinario flusso di arrivi, 53mila persone migranti spinte verso le coste di Lampedusa dalle «primavere arabe», e dall’altro un tracollo di turisti durante l’estate, il 60% in meno. Un documentario pubblicato dalla BBC in quell’anno si intitola The invasion of Lampedusa, parla di 40mila migranti arrivati dalla Tunisia e dalla Libia e mostra l’accampamento che si era creato nella zona dove sorge la Porta d’Europa, ribattezzata in quel periodo «collina della vergogna».
A settembre, probabilmente a causa delle difficili condizioni di vita e sanitarie all’interno del centro di accoglienza dell’isola, alcune delle persone che vi erano ospitate hanno appiccato un incendio nella struttura e sono poi fuggite rifugiandosi in varie zone dell’isola. Dopo l’incendio si sono verificati dei gravi scontri tra migranti tunisini, che avevano rubato alcune bombole di gas minacciando di farle saltare in aria, e lampedusani, che avevano risposto lanciando sassi. I giornali parlarono di guerriglia o rivolta.
Il 2011 è stato anche l’anno in cui Silvio Berlusconi, allora Presidente del Consiglio, disse di voler candidare Lampedusa al premio Nobel per la pace e, dopo aver sostenuto di dover «diventare lampedusano», acquistò Villa due Palme, nei pressi di Cala Francese, con l’obiettivo di rilanciare il turismo sull’isola e come garanzia per i lampedusani che non si sarebbero più verificati disagi dovuti alla presenza di un numero di persone migranti maggiore di quello che l’isola possa ospitare.
Il turismo e l’immigrazione sembrano stare sui due piatti della bilancia: per far sì che il turismo abbia un peso rilevante, è necessario che l’emergenza, la tragedia e l’invasione pesino poco o nulla.
È in questo periodo, anche con l’intensificarsi degli arrivi dalla Libia, che Lampedusa cominciò ad affermarsi e a essere raccontata dai media come l’isola dell’accoglienza anche grazie all’atteggiamento empatico dimostrato da molti dei suoi abitanti. Si è parlato, forse più seriamente rispetto a prima, di Lampedusa premio Nobel per la Pace. Questo non accadrà, come sappiamo.
2013: la «globalizzazione dell’indifferenza»
Il 2013 è stato l’anno della visita di Papa Francesco, il suo primo viaggio apostolico. Nino mi invita a guardare un pannello in cui sono segnalate tutte le tappe principali di quella visita accompagnate da alcune foto. L’8 luglio Papa Francesco tenne un’omelia presso il campo sportivo Arena durante la quale condannò l’individualismo causato dalla «cultura del benessere». «Siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro» aveva detto il Papa curandosi di ringraziare più volte i lampedusani «per l’esempio di accoglienza che ci state dando».
Si tratta di un discorso molto forte, soprattutto la parte in cui il Papa parla della crudeltà di «coloro che nell’anonimato prendono decisioni socio economiche che aprono la strada ai drammi». Un appello evidentemente inascoltato. Solo qualche mese dopo, il 3 ottobre 2013, 368 persone sono morte in un naufragio a poche miglia dalla costa italiana. Un evento cruciale per la storia di Lampedusa e dei suoi abitanti.
Nino parla del naufragio di quella notte senza girarci troppo intorno. «Senza scendere nei particolari» dice, riassumendo poi come andarono le operazioni di salvataggio. Un capitolo del libro La Frontiera di Alessandro Leogrande si intitola proprio Lampedusa, 3 ottobre 2013 e affronta in maniera molto precisa l’accaduto. L’imbarcazione era partita dalla Libia, a bordo c’erano circa 500 persone: a circa 800 metri dall’Isola dei Conigli le persone a bordo, dopo aver avvistato alcune imbarcazioni, sperano di essere tratte in salvo e portate sulla costa ma nessuno interviene. Intanto il peschereccio inizia a imbarcare acqua e le persone a bordo iniziano ad agitarsi. Il trafficante, nel ruolo di capitano dell’imbarcazione, incendia una coperta e la agita in aria per chiedere aiuto dando un segnale visibile dalla costa e sedare così le preoccupazioni. È il gesto che determina la tragedia: le persone vicine alle fiamme si allontanano dalla prua e vanno verso la poppa, il peschereccio si capovolge.
Più tardi, intorno alle 6 del mattino, il pescatore Vito Fiorino esce per una battuta di pesca insieme a dei suoi amici. È uno dei compagni di Fiorino a sentire per primo le urla, «un vociare», che in dialetto siciliano indica anche il grido di dolore. Fiorino racconta, nelle sue testimonianze pubbliche, che quelle urla gli sembravano in un primo momento il verso dei gabbiani. Alla vista delle persone in acqua «ho pensato che tre o quattro persone avrei potuto salvarle» dice Fiorino. Le persone in mare sono nude e sporche di gasolio, che veniva trasportato all’interno di molti barili a bordo del peschereccio: questo rende più difficile l’operazione dei soccorritori, perché appena afferrate le mani dei naufraghi queste scivolano via a causa del gasolio. Fiorino riesce a portare a bordo, dunque in salvo, 47 persone. In tutto, i superstiti di quel naufragio sono 155. Fiorino è rimasto in contatto con alcuni di loro e racconta un episodio molto significativo. Uno dei sopravvissuti che ha salvato, mentre sta parlando al telefono con un amico, riferendosi a lui, dice: «Ti passo my father».
Mare nostrum
La risposta del governo italiano al naufragio del 3 ottobre è stata autorizzare l’operazione Mare Nostrum. Le forze della Marina Militare e dell’Aeronautica Militare italiane perlustravano il Mar Mediterraneo e soccorrevano le imbarcazioni in difficoltà, trasbordando le persone migranti e portandole nei centri di accoglienza in Sicilia o nell’unico che c’è a Lampedusa. In questo periodo la popolazione dell’isola ha potuto avere un contatto diretto con le persone momentaneamente trattenute nell’hotspot, anche se queste non avevano il permesso di uscire e di frequentare liberamente le strade del Paese, come però accadeva. Si tratta del periodo del cosiddetto «buco nella rete» di cui tutti, comprese le autorità, erano a conoscenza. Il cancello dell’hotspot è sempre stato chiuso e alle persone migranti non era permesso di uscire da lì, per questo le persone trattenute lì hanno creato questa apertura nella rete metallica che funge da recinzione della struttura.
Si instaura un parallelismo paradossale tra il simbolo di accoglienza – la Porta d’Europa – e questo buco nella rete, una sorta di gioco di specchi tra apparenza e realtà dei fatti. Molti uscivano dall’hotspot e andavano in Paese anche per cercare un modo per contattare le proprie famiglie e alcuni si avvicinavano quindi all’Archivio Storico per collegarsi a Internet o chiedere a Nino di fare una telefonata. Nel corso del tempo Nino e gli altri volontari hanno spesso organizzato delle attività che promuovessero l’integrazione delle persone migranti, come l’organizzazione di corsi di lingua italiana.
Una delle immagini che ho trovato più interessanti durante la mia permanenza a Lampedusa è proprio qui, sulla scrivania di Nino. Si tratta di una cartolina: la foto ritrae alcuni ragazzi di spalle, seduti sulla panchina di fronte all’Archivio Storico a guardare la televisione in vetrina, che restava accesa anche di notte. La foto è stampata anche su alcuni segnalibri che riportano la frase: «La cultura è un mare che unisce». Ad oggi il buco nella rete è stato chiuso, chi arriva a Lampedusa e viene poi portato all’hotspot non ha il permesso di uscire liberamente.
Il memoriale Nuova Speranza
Quando saluto Nino, sull’uscio dell’Archivio, è ormai sera. È il 2 ottobre, il giorno dopo sarà il nono anniversario del naufragio che scosse le coscienze di molte persone, chiaramente non solo degli isolani. Nino mi ha parlato anche della commemorazione che si terrà alle tre e un quarto del mattino seguente, cioè allo stesso orario del naufragio. Poche ore più tardi eravamo entrambi in piazza Piave, alla commemorazione presso il memoriale Nuova Speranza voluto da Vito Fiorino. Il monumento è una sorta di vortice di metallo che ingoia il legno di una nave, sopra sono incisi tutti i nomi delle persone che morirono quella notte. Su una parete c’è l’opera dello street artist Neve che ha riprodotto una corona di fiori che Papa Francesco gettò in mare durante la sua visita sull’isola. Vicino, un cartello con sopra le foto dei volti di quelle persone. Anche Vito Fiorino era lì, a commemorare chi ha perso la vita quella notte di nove anni fa e ad abbracciare i salvati.