Vivere nelle banlieue, tra segregazione residenziale e violenza della polizia
“Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio, per farsi coraggio, si ripete: fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene. Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio”.
(L’odio, film di Mathieu Kassovitz, 1995)
Noi quanti piani abbiamo già oltrepassato?
Origine e sviluppo delle banlieue
Le banlieue contemporanee nascono nella seconda metà dell’Ottocento, in seguito alla trasformazione haussmanniana della capitale. Nel giro di trent’anni, il groviglio di strade che aveva caratterizzato la Parigi medievale fu sostituito dagli ampi viali che ancora oggi definiscono l’immaginario collettivo e lo scheletro del tessuto urbano parigino, separando il centro benestante dai quartieri periferici.
Nel corso del ‘900, e in particolare nel secondo dopoguerra, in virtù della crisi abitativa e dello spostamento delle masse contadine dalle campagne alle città, tali quartieri crebbero rapidamente. Dal 1953 al 1975 furono costruite più di 8 milioni di abitazioni, ripartite in altissimi e larghissimi condomini – le “torri” o barres – capaci di ospitare centinaia di piccoli appartamenti. Fino al 1970, all’interno di queste città dormitorio quasi totalmente prive di servizi vivevano perlopiù famiglie operaie e francesi d’oltremare tornati in patria. La manodopera proveniente dall’estero, impiegata principalmente nei settori edilizio e industriale, dovette adattarsi come meglio poté: in baracche improvvisate all’interno di bidonvilles.
Nelle bidonvilles, città per approssimazione, città rifiutate dalle città, la segregazione residenziale andava di pari passo con l’esclusione sociale, e coinvolgeva prevalentemente le famiglie di origine nordafricana.
Quando nel 1971 la legge Vivian impose la demolizione di tutte le bidonvilles, le persone che vivevano al loro interno furono trasferite nelle barres. Intervistata da Arianna Poletti, la ricercatrice Muriel Cohen sottolinea come le persone siano state spostate seguendo la logica della segregazione: “Sono stati presi tutti gli abitanti di una bidonville e spostati d’un colpo solo, senza criterio”.
Le tensioni all’interno delle cités de transit – così chiamate in quanto contenitori di alloggi ipoteticamente momentanei – si estesero a macchia d’olio, specialmente quando gli ex militari appartenenti alle vecchie truppe coloniali francesi furono nominati guardiani dei condomini. Nel 1979 scoppiarono le prime rivolte nelle banlieue di Lione, nel 1981 in quelle parigine.
Sullo sfondo dei disordini sociali, i socialisti guidati da Mitterrand inaugurarono la politique de la ville. Inizialmente focalizzata sul rafforzamento della partecipazione civica, sul miglioramento dei legami sociali e comunitari e su interventi edilizi il meno invasivi possibile (le demolizioni e le ristrutturazioni dei grands ensembles – i caratteristici complessi residenziali delle banlieue – furono ridotte al minimo), la politica urbana francese cambiò volto all’inizio degli anni 2000.
Forte della retorica nazionalista dell’estrema destra, che associava la crescita delle diseguaglianze socioeconomiche al fenomeno migratorio, le banlieue e le persone che le abitavano furono identificate come micce detonanti. Sotto questo punto di vista, il fatto che ad abitare le banlieue fossero tantissime persone dotate di cittadinanza e francesi di seconda generazione importava poco, vista l’associazione tra bianchezza e possibilità di essere percepite come francesi.
L’obiettivo divenne quindi quello di favorire la mescolanza sociale – la mixité sociale, articolatasi spontaneamente come mescolanza etnica oltre che di classe – attraverso un programma di rigenerazione urbana incentrato sugli interventi di demolizione dei grands ensembles e sulla diversificazione dell’offerta abitativa, con svariate tipologie di contratti d’affitto e più case indipendenti.
In questo modo ci si assicurava di attrarre maggiormente i ceti medi (ossia persone bianche francesi appartenenti alla classe media), evitare il comunitarismo e così “risolvere il problema” delle banlieue.
Il Program National de Rénovation Urbaine (PNRU) del 2005 ha tuttavia tutt’altro che attenuato – e tantomeno migliorato – la condizione di disagio in cui sprofondavano le banlieue, aggravando ulteriormente l’esclusione sociale delle comunità residenti. I programmi di demolizione su larga scala e la preferenza verso affitti a prezzo di mercato durante la ricostruzione, infatti, hanno ridotto la quantità di alloggi a prezzi accessibili per le famiglie che vi risiedevano originariamente ed eroso i legami sociali e affettivi tra persone e luoghi, strappando un germoglio di senso di appartenenza già logorato da decenni di marginalizzazione. Un senso di appartenenza che dubita continuamente di se stesso, lacerato dalla dissonanza tra la percezione che si ha di sé – essere francese – e la percezione che il mondo esterno ha di te – essere stranierə.
Come sottolinea l’Institut Montaigne, le politiche di rigenerazione urbana degli ultimi quarant’anni non sono state in grado di affrontare le cause profonde della povertà, con il risultato che, oggi, più della metà delle persone che vive nelle banlieue ha un reddito familiare inferiore ai €11,250, e il triplo delle possibilità di essere disoccupata rispetto alla media nazionale. Inoltre, queste aree continuano a essere poco servite a livello di servizi sociali e sanitari di base: hanno il 40% di medici privati in meno rispetto al resto della Francia, il 67% di medici specializzati in meno e il 50% di pediatri in meno; il numero di asili nido è sei volte inferiore rispetto alla media e la fornitura di servizi culturali, sportivi e ricreativi rimane scarsa (la metà rispetto alla media nazionale).
Tra segregazione e violenza della polizia
L’evoluzione del tessuto sociale delle banlieue ha reso la segregazione etnica delle persone che vivono al loro interno parallela a quella abitativa. Nel 1992, il 74% delle famiglie provenienti dall’area del Maghreb erano locatarie di una HLM – habitation à loyer modéré -, prevalenti all’interno delle banlieue. Ciò ha reso anche la storia di violenza da parte delle forze dell’ordine strettamente interconnessa a quella di segregazione residenziale nei quartieri periferici.
Infatti, nonostante in Francia le statistiche su base etnica siano vietate, alcuni studi indipendenti hanno rilevato che i giovani uomini percepiti come neri o arabi abbiano una probabilità 20 volte superiore di essere fermati dalla polizia e che le persone che risiedono nelle banlieue abbiano il triplo delle possibilità di avere problemi con le forze dell’ordine.
Il recente omicidio di Nahel – originario della banlieue di Nanterre – è la punta di un iceberg la cui parte sommersa contiene non solo le storie e i nomi di centinaia di persone sistemicamente oppresse dalle istituzioni francesi, ma anche secoli di brutale colonialismo con la cui eredità la Francia fatica a fare i conti.
In nome della color blindness che, negando l’esistenza di disuguaglianze reali (il tipico “non vedo colori, solo persone”), sminuisce le esperienze uniche delle persone razzializzate, la Francia nega l’esistenza del razzismo istituzionale, parlando piuttosto di “mele marce” all’interno delle forze dell’ordine. Tuttavia, la storia di violenza che circonda la polizia francese va totalmente controcorrente rispetto a questa tesi, evidenziando piuttosto una serie di bias razziali – espliciti e impliciti – che derivano da una cultura sviluppatasi sugli ideali del suprematismo bianco. È sulla base di questi ultimi che Bouna Traoré e Zyed Benna sono morti folgorati, che Lamine Dieng, Cedric Chouviat, Ali Ziri e Adama Traoré sono stati soffocati, che Makomé M’Bowole è stato freddato a colpi di pistola, che più di cento algerini sono stati massacrati la notte del 17 ottobre 1961.
Ci troviamo ormai davanti alla certezza di non star più cadendo: siamo atterrati, e come Sisifo continuiamo a riportare il masso in cima, a farlo cadere di sotto, a fargli raggiungere lo schianto e a riportarlo su, ancora e ancora.