Ungheria, oltre la paura
Beyond Fear. Federica rilegge ed è un attimo pensare che si tratti di un progetto su “l’anti-qualcosa”, che poi contro ci va sempre, tanto vale provarci anche stavolta.
Oltre la paura. Se lo ripete in testa e se lo traduce. Sarà un progetto sui migranti, su quella paura che abbiamo per i rifugiati, per quelli che arrivano dal mare sui barconi. Che poi paura di chi. Paura di cosa. Se lo ripete in testa e poi lo ripete anche ad alta voce. A tavola. Nel bel mezzo del telegiornale Federica se ne esce così, proprio dal nulla.
“Mamma, vado in Ungheria.” Lo dice tra una notizia e l’altra e qualcuno neanche sente. “E questa volta a fare che?” con quel tono di chi sa già come andrà a finire, di chi sa già che sarà l’ennesimo posto sperduto dove manco prende il cellulare.
“Dieci giorni immersi nella natura, in un paesino fuori Budapest, nella campagna ungherese a parlare di dialogo interculturale tra comunità locale e migranti.” Dopo un’altra frase di odio di Matteo su chi ci ruba il lavoro, la risposta di Mamma non può essere che diversa da così. “Ma con Orban? Ma non è pericoloso? Ma non hai paura?”.
Beyond Fear nasce dall’idea di quattro ragazzi, Titanilla, Jacint, Nora e Agnes, da giornate trascorse all’aria aperta a chiedersi come insegnare qualcosa in modo che venga appreso facilmente e da continui tentativi di confronto all’interno della loro associazione Èlmènyakadémia Egyesulet.
Trenta anni, ungheresi e provenienti da studi diversi, chi scienze sociali e chi psicologia, sono accomunati tutti dalla passione per l’educazione. Se l’è chiesto spesso Jacint. Una vita dedicata ad occuparsi di educazione all’aria aperta e di minoranze. E la risposta ce l’aveva lì tra le mani. L’aveva sempre saputo. «Chi sa fare un fuoco alzi la mano e si metta da una parte». Ecco, tutti gli altri, proprio chi un fuoco non l’aveva fatto mai, doveva mettersi a farlo. E ce l’hanno fatta tutti. L’hanno acceso tutti il fuoco. È un po’ questo il learning by doing, impari facendo e non puoi dimenticartelo e attraverso l’esperienza, l’experiential learning, ti rimane in testa.
E come poter andare oltre la paura del diverso se non partendo da sé? Se non sperimentandola quella paura lì? Affrontando la propria di paura, facendola tornare in superficie, scatenando l’uragano che naturalmente ne potrebbe conseguire. A volte quelle esperienze sono talmente difficili da raccontare che questo non sarebbe neanche il luogo adatto, però allego questo video, che magari riesce a farvi immaginare un po’ quello che si è vissuto.
Lavoro di squadra. Pregiudizi. Stereotipi. Sfide mentali e fisiche. Fiducia e connessioni. Natura. Fuori dalla propria comfort zone. E una domanda li ha tenuti svegli per tutto il tempo.
Come integrare la popolazione migrante, come fare in modo che ognuno di loro si senta parte, appartenente a una comunità fatta di esseri umani?
Anche se poi integrare è una parola che non mi è mai piaciuta, in quanto presuppone l’esistenza di un noi e di un loro, di un loro che deve stare alle regole del noi, che deve assecondare quel noi. Mi piace dire appartenere Che Giorgio Gaber non poteva spiegare in modo migliore nella sua “Canzone dell’Appartenenza.”
l’appartenenza non è lo sforzo di un civile stare insieme
non è il conforto di un normale voler bene
l’appartenenza è avere gli altri dentro di sé. è la speranza di ogni
uomo che sta male è quel vigore che si sente se fai parte di qualcosa
che in sé travolge ogni egoismo personale
con quell’aria più vitale che è davvero contagiosa.
il senso di uno sforzo collettivo per ritrovare il mondo.
l’appartenenza non è un insieme casuale di persone
non è il consenso a un’apparente aggregazione,
che ferma i fiumi, sposta i monti con lo slancio di quei magici momenti
in cui ti senti ancora vivo.
sarei certo di cambiare la mia vita se potessi
cominciare a dire noi.”
Quelle parole – «Ma non è pericoloso? Ma non hai paura?» – sono tornate spesso in mente a Federica. Ha avuto paura di saltare da un palo alto dieci metri, anche se le braccia dei suoi compagni di viaggio che la tenevano salda non le facevano percepire il pericolo. Ha avuto paura del freddo che si era infiltrato tra l’umidità dei tendoni che aveva utilizzato per costruire quel rifugio in mezzo al bosco, ma anche quella volta la vicinanza dei sacchi a pelo dei suoi compagni di viaggio non le hanno fatto percepire il pericolo.
La paura più grande forse è stata quella di vederli andare via ancora, di lasciarli soli di nuovo. Di regalare a ognuno di quei bambini una giornata di spensieratezza, per poi andarsene, come se nulla fosse stato. «E ogni giorno può essere come questo». Aveva imparato questo, alla fine. Glielo aveva sussurrato Eniko, con l’affetto di chi ci è già passato, di chi si è già fatto un po’ le ossa. Quarant’anni, transilvana – come le piace sottolineare – e un lavoro nella segreteria di un partito in Romania.
Gloria, Caio e Obeid sono arrivati tutti insieme. Sono scesi dal pullman che li avevi presi da Budapest la mattina presto. Li ha accompagnati Bori, studentessa di giurisprudenza nella capitale e volontaria di Menedék – Hungarian Association for Migrants.
“Ma con Orban?”. Ecco l’altra domanda che Federica si era portata dietro per tutta la strada, chiedendoselo spesso e chiedendolo anche a chi potesse saperne più di lei. Obeid lascia una foto sul tavolo. C’è una donna piena di colori. «Questa immagine rappresenta le persone che ho incontrato oggi». Obeid lascia un messaggio sul tavolo. C’è un bambino pieno di colori.
E Orban oggi sembra più lontano che mai. «Saremo mai puri esattamente come lo sono loro?». Se lo chiede Yanis. 23 anni, studente di Architettura a Salonicco. E poi lo chiede anche a tutti gli altri. In cerchio. Ci si siede tutti insieme alla fine della giornata. «Quando l’ho persa?», si interroga ancora Lukas. 23 anni anche lui, appena laureato in Giurisprudenza a Zagabria, dopo un anno trascorso in Erasmus a Budapest. «Quando abbiamo perso la nostra purezza?». Questa volta Theo lo ripete ad alta voce. 21 anni e una grande passione per la natura, tanto da decidere di frequentare la facoltà di Agronomia di Atene. E cala il silenzio in mezzo a quei ragazzi provenienti da paesi, culture e storie diverse. E Orban oggi sembra più lontano che mai.
«Ma io penso che si tratti di una politica contradditoria» afferma Dora. Nata e cresciuta a Budapest, con un’esperienza di un anno in Italia, ospitata da una famiglia novarese grazie all’associazione Intercultura. 21 anni e studentessa di Scienze Politiche e Relazioni Internazionali.
«Non gli piacciono gli immigrati fuori Europa. È un po’ razzista questo è il problema». Continua a raccontare, dal suo personale punto di vista, mettendo in evidenza come sembrerebbe più un «sovranismo di facciata» utilizzato per stare al passo con i grandi, che invece poi nell’attuazione delle politiche interne in realtà sia alcune volte più moderato.
«È successo una volta, per esempio, che ha accolto dei profughi dal Venezuela e li ha anche aiutati». Era il 2019 quando l’Ungheria ha accettato un centinaio di rifugiati dalla crisi nel paese Sudamericano, ma con radici ungheresi, attraverso un programma governativo, affidandosi a un’associazione di beneficenza locale. Sembra allora sorgere l’ipotesi di un’azione in netta contraddizione rispetto ad anni di politiche contro le migrazioni di massa verso l’Europa del Primo Ministro ungherese, il quale ha replicato attraverso una dichiarazione di Gergely Gulyas, capo dello staff di Viktor Orban durante una conferenza stampa: «Stiamo parlando di ungheresi e non consideriamo gli ungheresi come migranti».
Il progetto politico di Orban si accentra sull’importanza della sovranità nazionale. Ciò che proviene dall’esterno è pericoloso, fa paura e va evitato, bisogna difendersi da tutte le possibili contaminazioni e intrusioni. Il controllo è necessario ed è accompagnato da un’ampia dose di potere che permette di ritoccare la Costituzione e di raggiungere gli organi di informazione, appropriandosi di testate giornalistiche e di canali televisivi.
È nato così, nel 2010, il Consiglio per i media attraverso il quale l’editoria pubblica è diventata mezzo di propaganda. Una tassa sulla raccolta pubblicitaria di tv, radio, giornali e siti Internet, destinato a colpire Rtl Klub, unico canale televisivo non governativo, ma appartenente al gruppo tedesco Bertelsmann. La conseguente chiusura dei quotidiani dell’opposizione, come Nepszabadsag, Magyar Nemzet e la radio Lanchid, con nessuna possibilità di protesta.
Perché i problemi sono gli stessi. Federica e Andràs percepiscono le stesse cose. 22 anni lei, studentessa di Scienze Politiche, Relazioni Internazionali e Diritti Umani all’Università di Padova, in Erasmus a Cluj Napoca, al nord della Romania; 27 anni lui, professore di educazione fisica alla Burattino Iskola, Gyermekotthon a Budapest, dove «la comunità romanì è davvero parte della scuola. Ma a volte viene semplicemente spostato il focus sul prossimo capro espiatorio».
Domani potresti semplicemente essere tu. Posso essere io. Può essere Federica. E poi Andràs. E quelle “figure mostruose” e demonizzate lì a cui poi addossiamo tutta la colpa, non incarnano la stessa identica immagine? Ancora una volta si tratta di un tipo di narrativa razzista e cattivista, che mette al centro la sovranità nazionale, in cui ancora una volta il diverso fa paura e va evitato, perché può intaccare ciò in cui ci identifichiamo, ciò a cui crediamo di appartenere.
E per quanto crediamo che ci sia un ampio spettro di discrezionalità, che si possa fare un po’ ciò che si vuole, nel settembre del 2016 sono stati stabiliti dei criteri, una linea guida all’accoglienza. Ma allora esiste questa accoglienza, allora non è una scelta lasciata completamente al destino o che viene decisa in base alla capacità di sopravvivenza del singolo, a quelle normali competenze che si insegnano da bambini, come superare montagne, notti in mezzo al mare e poi di nuovo un confine, probabilmente ricoperto di filo spinato.