#NoRecruitmentFees: poniamo fine alle tasse che agevolano il lavoro forzato
L’UN Global Compact definisce le tasse di assunzione, o recruitment fees, come “le tasse associate ai processi di selezione lavorativa e di assunzione sostenute da privati cittadini”. Tra queste figurano i costi per corsi di formazione, per l’inserimento nel mondo del lavoro e tutte le imposte e i contributi necessari per lavorare regolarmente in un Paese. Queste spese sono particolarmente alte per chi va a lavorare in un Paese diverso dal proprio.
I migranti lavoratori affidano alle agenzie per il lavoro il proprio futuro, sottomettendolo a un sistema che spesso antepone le logiche di mercato a quelle di servizio al cittadino. Tali agenzie fanno da intermediari tra migranti e aziende locali e, in senso lato, tra i migranti e la loro emancipazione. Molti agenti richiedono tasse superiori rispetto ai costi effettivamente sostenuti. Generalmente, sfruttano causali generiche come “servizi di assunzione e assistenza”, complice l’insufficienza di regolamentazioni.
L’entità delle fees varia in base ai Paesi di provenienza e di destinazione del lavoratore. Impiegare un lavoratore del Bangladesh nel Golfo, ad esempio, costa circa 500 dollari, senza includere il costo del volo. Eppure, le tasse di assunzione possono raggiungere i 6.900 dollari, a fronte di un salario medio di 240 dollari per i lavoratori non specializzati. I migranti si trovano costretti a indebitarsi per poter lavorare. Stando a uno studio del 2014 a cura del professor Jureidini, “Migrant Labour Recruitment to Qatar”, i migranti pagano tra i 200 e i 600 dollari di spese “extra”, all’apparenza ingiustificate, per iniziare a lavorare regolarmente in Qatar. Le tasse di assunzione sono spesso un pretesto per trarre profitto dalla vulnerabilità dei lavoratori migranti: è una tassa sulla disperazione.
Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, i lavoratori migranti sono un pilastro del sistema economico globale, che fatica a gestire il costante bisogno di manodopera non specializzata a basso costo. Questi lavoratori sono tra le maggiori vittime di discriminazione, salari iniqui e condizioni di lavoro che poco si addicono a Paesi che si professano moderni. L’ultimo rapporto dell’IHRB sottolinea come le tasse di assunzione, spesso pagate ancora prima di avere un contratto di lavoro, violino i diritti umani dei lavoratori migranti. I lavoratori si trovano a firmare contratti insoddisfacenti, dopo essersi indebitati sulla base di promesse che non si avverano mai.
Molti datori di lavoro lasciano di buon grado che gli agenti gestiscano le prime fasi della selezione del personale proveniente dall’estero. Questo perché il dipendente che sostiene spese enormi per ottenere un lavoro e vive in una perenne condizione di precarietà finanziaria è piuttosto tollerante nei confronti del lavoro forzato. Molte aziende, consapevoli del problema, offrono rimborsi per i lavoratori migranti. Queste iniziative, di per sé positive, non risolvono però una pratica deleteria di sfruttamento normalizzato, che richiede un cambiamento sistemico.
Appurando la carenza di azioni risolutive da parte degli Stati, e la facilità con cui le agenzie aggirano le regolamentazioni, diverse associazioni si sono attivate. La Public Services International ha dato vita alla campagna #NoRecruitmentFees per garantire a tutti un processo di assunzione etico ed equo, invitando qualsiasi associazione interessata a firmarne il manifesto. L’Interfaith Center for Corporate Responsibility ha istituito l’iniziativa “No Fees”, che istruisce le aziende in merito ai comportamenti da tenere per assicurare condizioni dignitose ai lavoratori migranti; l’International Labour Organization ha lanciato invece la “Fair Recruitment Initiative” contro tutti gli abusi verso i lavoratori migranti.