Sirio la voglia di vivere l’ha presa dalla vita: intervista a mamma Valentina
Io da bambina andavo sempre a giocare al parco giochi. Mia mamma ci portava sempre, e io e mia sorella trascorrevamo interi pomeriggi lì, a giocare insieme. A correre, cadere, fare lo scivolo, inventare storie e personaggi, cercare improbabili tesori nascosti in quelle terre in epoche antichissime, a conoscere altri bambini, fare amicizia, anche litigare, qualche volta arrabbiarsi, piangere, ma sempre al parco, a giocare, a scoprire la vita, a vivere. Andare al parco mi è sempre stato dato per scontato, come qualcosa di assolutamente naturale, indiscutibile, ovvio, dovuto. Andare al parco a giocare è sempre stato mio come è sempre stato mio mangiare, dormire, essere al mondo. Andare al parco è sempre stato un mio diritto, ecco, e lo è stato prima ancora che mi insegnassero il significato della parola “diritto”. Andare al parco, per un bambino, è un diritto.
C’è un’altra cosa che mi hanno sempre detto, tutte le persone che mi hanno cresciuta: che “siamo tutti uguali”. E sono sempre stata una bambina molto semplice, per cui anche questo mi è sempre parso molto scontato, molto ovvio e molto vero, e ho continuato a giocare con gli altri bambini.
Ma non per tutti i bambini è così ovvio sapere che siamo tutti uguali, non per tutti i bambini è così scontato andare al parco e andare a scuola, giocare, vivere il mondo. Esistono bambini che nascono con alcuni ostacoli in più. Così, senza alcuna colpa, assolutamente innocenti, alcuni bambini nascono con qualche ostacolo in più, e nessun’arma per potersi difendere. Esistono bambini che hanno bisogno che la loro uguaglianza venga attualizzata, con tanta attenzione, protezione e cura.
Questa mattina parlo con, Valentina, mamma di Sirio, che è un bambino di sette anni affetto da tetraparesi spastica, e lei che lo vive mi racconta quanto è difficile, senza aiuti, permettere ad un bambino di essere al mondo.
Spesso le cooperative che garantiscono l’assistenza infermieristica anche sulle 24 ore poi obbligano il personale a non uscire di casa. Questo concetto di ospedalizzazione è un carcere: se non permetti a chi assiste il bambino di uscire dall’immobile – quindi di andare a scuola, di andare al parchetto, di andare ai day hospital insieme e tutto quello che comporta la vita – vuol dire completamente blindarci in casa, non permettere a queste vite di comunicare… Hai desiderio di comunicare nel momento in cui ti senti parte del mondo, e le pulsioni verso la vita, il desiderio per la vita viene dalla vita. È assurdo pensare di chiudere in casa un bambino – una vita – così. Assurdo.
E l’inclusione parte dalla vita, parte dal vivere le strade, i parchi, la scuola, le persone, le relazioni, il mondo… La battaglia che portiamo avanti noi è quella di un pensare un’inclusione – … iniziare, almeno, a pensare a un senso di inclusione – che coinvolga davvero anche le patologie più gravi, che sono anche quelle sinceramente prese meno in considerazione […] In tutti questi anni abbiamo conosciuto moltissime famiglie con situazioni simili alle nostre, e ci sono davvero tante famiglie che non sono mai, mai uscite di casa con il loro figlio per andare al parco giochi perché lo considerano davvero una fatica insormontabile. Noi ci esponiamo molto perché crediamo invece che bisogna dare alle famiglie gli strumenti per uscire di casa, perché andare al parco giochi non può essere una fatica insormontabile”.
Da mamma, quali strumenti credi siano necessari perché questa inclusione di cui siamo tanto bravi a parlare possa essere reale?
Ecco: inclusione. Ci riempiamo sempre la bocca di questa bella parola, e tu giustamente mi chiedi quali siano gli strumenti per un’inclusione reale. Gli strumenti sono in primo luogo personalizzare l’inclusione, e quindi permettere la creazione e lo sviluppo di percorsi che accolgano il bambino in tutta la specialità dei suoi bisogni, perché abbia tutta la normalità che gli appartiene. Ci sono bisogni di assistenza primari e personali che la società e soprattutto chi poi è responsabile sul piano sanitario devono riuscire a comprendere. Sirio ha una paralisi cerebrale (come diagnosi è una tetraparesi spastica) – e queste sono parole immense che inglobano migliaia di situazioni tutte completamente diverse nelle necessità e nei bisogni le une dalle altre. Burocraticamente, poi, con tutte queste definizioni e parole, alla fine, Sirio non è più Sirio: è un soggetto affetto da tetraparesi spastica e “sta bene dove sta”. Ma non è così. Non è così. È come se non venisse proprio preso in considerazione il fatto che questi bimbi, in realtà, sono perfettamente coscienti e quindi desiderosi di fare, di partecipare, di esserci anche loro, nella vita. E la vita è per forza socialità.
Per noi l’inclusione, quindi, è partita sicuramente dalla nostra famiglia, dall’uscire, avere un fratello leggermente più grande a cui come genitori abbiamo sempre voluto garantire una vita il più possibile normale – con gli ovvi limiti e le naturali difficoltà del caso – ma anche sicuramente per questo la porta di casa la abbiamo aperta subito. Ma non è facile, e da solo non basta uscire dalla porta di casa. Senza ombra di dubbio mi sento di dire che il vero percorso di inclusione è stata la scuola.
[…] Noi la scuola abbiamo voluto iniziarla prestissimo, un po’ contro tutto e tutti. Sirio è andato alla materna già a tre anni e dopo davvero lunghe battaglie. Per riuscire a ottenere l’infermiera a scuola, in classe, le istituzioni ti invitano ad aspettare la scuola dell’obbligo: loro devono occuparsi di meno cose, tu magari comunque hai il bambino debole… Ti dicono tutti che è meglio che stia a casa, tu ti senti tutelata e via dicendo… Ecco, sono tutte stupidaggini. Per noi la scuola è stata assolutamente la rivoluzione. Il desiderio di stare insieme agli altri, di costruire percorsi, di costruire inclusione.
Io mi sento di dire che noi siamo stato davvero fortunati, perché abbiamo avuto il privilegio di incontrare anche persone che avevano sinceramente voglia di lavorare su un’inclusione efficacie e reale: puoi immaginare cosa possa voler dire includere in una classe di bambini di tre e quattro anni un bambino con tutti i bisogni e le diversità che ha Sirio? E ci siamo riusciti benissimo. Ma siamo stati eccezionalmente fortunati.
Con la nostra pagina Facebook poi, senza nemmeno farlo apposta, siamo diventati un po’ un punto di riferimento sulla disabilità: e va benissimo, ci piace provare a “giocarci questa carta” – sempre che poi si lavori su percorsi seri di integrazione, ovviamente, senza fermarsi alla “star del web”. Servono leggi che tutelino i caregiver – c’è chi dietro ad una disabilità trascorre tutte le notti della sua vita e poi la mattina dopo va a lavorare. C’è davvero tanto bisogno. La nostra presenza in rete ci ha aiutato a far capire che forse non si è proprio soli, che c’è un percorso collettivo che si può fare. Tralasciando tutto quello che riguarda gli show e l’apparire, che ci interessa davvero poco, ci interessa che si lavori ad un percorso di conoscenza, la nostra è una battaglia per la presenza e l’esistenza. Sirio è stato visto da un mondo intero, un mondo intero che probabilmente non ha mai visto nella sua vita una tracheostomia o una paralisi cerebrale, e allora pensiamo che tutto questo faccia bene.
Fa bene perché permette ai tanti Sirio di trovare un po’ di coraggio e uscire di casa. La più grande soddisfazione, che è davvero un’immensa gioia, è sapere che tante persone, quest’anno, hanno iscritto i loro figli a scuola perché avevano visto che lo aveva fatto Sirio, o che sono usciti al parchetto che avevano sotto casa perché avevano visto che Sirio ci va. Queste sono le più belle vittorie che ci portiamo in casa.
Ultima domanda: se dovessi raccontarci una cosa bella che hai scoperto nell’affrontare la quotidianità di Sirio?
Eh, sicuramente tante cose, e ho capito lentamente quanto poi possono essere state importanti e belle. Imparare la lentezza, la pazienza, imparare che esistono altri ritmi, scoprire che la vita malgrado questo può essere estremamente larga, felice… Quindi ecco, ho imparato che si può essere felici, che si può comunque aspirare alla felicità. Ed era una cosa che ad un certo punto, nei primi anni, avevo pensato di non poter più dire mai. Certo uno combatteva, stava lì, lottava, ma certo non per la felicità. E invece è stato anche grazie a Sirio, grazie a Nilo, grazie alla vita che abbiamo costruito, grazie a tutte le famiglie che abbiamo conosciuto, che abbiamo riscoperto di essere felici. Che non per forza bisogna essere dritti, che non tutte le vite sono normali… Ma non per questo sono meno vite.
Sì, sì, che strazio… lo sappiamo già che siamo tutti uguali, che la diversità è una forza, che l’integrazione è meravigliosa, eccettera eccettera… È un po’ come quando ripeti troppe volte di seguito la stessa parola: “uguale, uguale, uguale, uguale, uguale, uguale, uguale…” ad un certo punto, così, improvvisamente, senza che tu te ne accorga, le parole si svuotano, e ti restano in bocca soltanto i suoni. Così, sempre a ripetere che “siamo tutti uguali”, rischiamo di scordare che siamo uguali, sì, in dignità e diritti, ma non lo siamo concretamente. Nel mondo reale, quello della realtà concreta, le disuguaglianze esistono, ed è proprio lì, nella concreta difficoltà personale specifica, che serve lo sforzo collettivo di tutti. È nella diversità dei bisogni che bisogna lavorare, per colmare queste distanze e rendere l’uguaglianza effettiva. Se sinceramente riconosciamo di essere tutti uguali, che allora significa anche che vogliamo concretamente renderci uguali, dobbiamo andarli a cercare, tutti i Sirio del nostro quartiere. In tutti i parchi giochi del mondo, con tutti i bambini del mondo.