Quale casa? Tra i senzatetto di Genova durante l’emergenza sanitaria
Articolo pubblicato il 31 marzo 2020
Il secondo lockdown, imposto al momento nelle regioni “zona rossa”, si preannuncia più lungo del primo, anche se con misure meno restrittive. I mesi invernali che abbiamo di fronte peseranno ancora più del solito sulle fasce già fragili delle nostre città. Uno sguardo sulla condizione dei senza tetto di Genova in quest’intervista di fine marzo 2020.
Silenzio. Genova – come tutte le città italiane in questi giorni – è avvolta da un’atmosfera surreale. Il silenzio piatto che permea strade e piazze è interrotto soltanto dal passare di un’ambulanza. La regola è la stessa per tutti: state a casa, state a casa, state a casa. E ancora, siate responsabili, state a casa. E stiamo a casa davvero, come dimostrano le fotografie che sono circolate in questi giorni nel web – che non hanno tuttavia impedito il feroce linciaggio social che negli ultimi giorni ha massacrato chiunque venisse sorpreso fuori dalla propria abitazione.
C’è qualcuno che però si aggira ancora indisturbato per la città deserta. Qualcuno a cui nessun vigile intimerà di tornare a casa. Perché – anche se fa comodo fingere di dimenticarlo – c’è qualcuno che una casa dove rinchiudersi non ce l’ha. Sono i senzatetto di Genova.
Sergio, volontario storico della Comunità di Sant’Egidio di Genova, ci racconta qual è la situazione dei nostri concittadini la cui casa sono le vie del centro, e il cui unico tetto è il cielo.
Com’è cambiata la situazione per chi vive in strada in questi ultimi giorni?
Allora, i nostri amici – io li chiamo così, amici – che dormono realmente per strada o in ricoveri di fortuna, tipo macchine, sono circa centotrenta persone. Per queste persone è un problema anche per il fatto che potrebbero, vista l’alta contagiosità del virus, diventare veicolo di diffusione. Per la loro salute rappresenta comunque un problema importante, soprattutto in vista del fatto che, in Italia, i senza fissa dimora hanno un’aspettativa di vita di vent’anni inferiore rispetto all’italiano medio perché come puoi immaginare c’è un’incidenza delle malattie respiratorie o altro molto più alta per chi vive per strada, questo perché si conduce una vita molto meno protetta della nostra, spesso c’è un abuso di alcol, ci sono patologie non seguite correttamente – figurati, come fai a seguire una terapia se non hai una casa? – insomma non entro nel dettaglio, ma si tratta di persone molto più fragili. Quando si dice che il coronavirus non è pericoloso per i giovani – ma lo è lo stesso e molto – per le persone anziane, ecco, lo è ugualmente per i senza fissa dimora. Per questo abbiamo chiesto e ottenuto un posto dove farli stare: il Comune ha aperto un posto in Via del Molo, a breve ne aprirà uno a Righi. Lì il Comune paga una cooperativa per avere il posto e noi ci diamo i turni per coprire le giornate con loro. Metto in chiaro che tutto questo noi non lo facciamo “spensieratamente”: abbiamo fermato tutti i volontari ultrasessantacinquenni e tutti quelli che per venire a fare il giro avrebbero preso un mezzo pubblico. Inoltre, abbiamo messo in atto tutte quelle misure di protezione interpersonale – non solo distanza ma anche guanti e mascherine – che all’inizio ad alcuni di noi facevano storcere il naso, perché è una vita che ci diciamo che è bello far sentire la nostra vicinanza. Poi però abbiamo deciso che era una misura necessaria innanzitutto per preservare loro. A loro la mascherina è un po’ più difficile fargliela mettere, abbiamo comunque distribuito dei prodotti disinfettanti e per l’igiene personale ma, soprattutto, abbiamo provato a spiegare, perché alcuni leggono i giornali ma molti non capiscono, hanno molta confusione rispetto a quello che sta succedendo, che è anche un modo per aiutare loro a proteggersi e a non farsi a loro volta veicoli di contagio.
Psicologicamente, come la stanno vivendo i senzatetto?
Psicologicamente, le cose sono molto varie. Ti direi che ho riscontrato molto fatalismo. Diversi tipi di fatalismo, ad esempio religioso: un nostro amico musulmano ci diceva “Beh, in fondo, se Dio ha scelto il tuo momento, lo ha scelto, per cui cosa ti metti a fare la mascherina?”. Oppure un nostro amico che sta in una tenda ad igloo ricoperta di cellophane in Via XII Ottobre sotto i portici – lui è un grande fotografo, uno che ama fotografare il cielo – mi diceva “Guarda che io non mi posso mettere quella roba lì (cioè le mascherine eccetera) perché io, isolato come in una campana di vetro, ecco lì sì che morirei”. Per cui c’è proprio un sentimento di fatalismo. E poi c’è un altro problema pratico e drammatico: che con la città chiusa loro – molti avevano una rete di amicizie che gli portava la colazione – non sanno più dove andare a mangiare, spesso hanno fame. Mentre prima, vivendo tutti loro comunque da anni per strada, avevano persone che gli portavano panini eccetera, ora la situazione è diversa. Ora vari gruppi hanno sospeso il giro, noi abbiamo aumentato i turni per fare in modo che ogni sera ci sia qualcuno sia per portare il cibo sia per verificare che stiano bene – perché se poi stanno male nessuno se ne accorge, e purtroppo negli anni ne sono morti tanti per problemi di salute risolvibili ma che non erano stati diagnosticati per tempo. Quindi dicevo, con locali chiusi e solidarietà diminuita, molti di loro soffrono la fame. Non solo: le donne – per fortuna poche – che sono per strada e che, molto più degli uomini, patiscono l’assenza di bagni dove andare essendo chiusi tutti quei locali dove potevano appunto utilizzarli. E quando ne hanno bisogno per motivi intimi personali per loro è proprio umiliante, alcune di loro ce lo hanno proprio detto in modo esplicito.
Immagino soffrano anche la desolazione delle strade vuote.
Sì. L’isolamento già c’era, ovviamente, ma la fame e la solitudine sono i problemi che questa nuova situazione ha esasperato in maniera drammatica. Mi sono sentito dire, alle nove di sera, che “è da stamattina che non parlo con nessuno”. Tu immaginati cosa vuol dire stare senza parlare con nessuno dalle sei di mattina quando si svegliano alle nove di sera. Un bisogno che già c’era ma che si è aggravato drasticamente. Sommato all’inquietudine di non sapere cosa succede adesso, quanto durerà, come andrà avanti e queste cose qua. Come tutti, ecco, ma un po’ di più.
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