Il diritto alla ricerca e al viaggio: Patrick Zaki
Patrick George Zaki, 27 anni, studente all’Università di Bologna del programma Gemma – studi di genere e delle donne – e attivista per i diritti umani si trova dal 7 febbraio 2020 in detenzione preventiva in Egitto fino a data da destinarsi. Arrestato, tenuto bendato e ammanettato per 17 ore durante il suo interrogatorio all’aeroporto nell’ufficio dell’Agenzia della sicurezza nazionale. Tra le accuse: “diffusione di notizie false”, “incitamento alla protesta” e “istigazione alla violenza e ai crimini terroristici”, legate ad un profilo Facebook che la sua difesa considera falso.
Il 5 marzo è stato trasferito da Mansoura alla prigione di massima sicurezza di Tora, al Cairo. L’udienza per il processo preliminare per istigazione al rovesciamento del governo e della Costituzione è stata rinviata innumerevoli volte. Le prime due udienze del processo a luglio. Nella seconda, 26 luglio, Patrick Zaki ha potuto vedere per la prima volta i suoi avvocati dal 7 marzo: Patrick è apparso visibilmente dimagrito. Il 26 settembre, a seguito di una nuova udienza, il tribunale ha deciso un ulteriore rinvio.
Il 7 dicembre il rinnovo per 45 giorni della custodia cautelare deciso dal giudice della terza sezione antiterrorismo del tribunale del Cairo. Patrick George Zaki rischia fino a 25 anni di carcere. Amnesty International Italia afferma: “Riteniamo che Patrick George Zaki sia un prigioniero di coscienza detenuto esclusivamente per il suo lavoro in favore dei diritti umani e per le opinioni politiche espresse sui social media”.
Patrick Zaky, come Luca (Perché la storia di Luca Attanasio la sentiamo anche nostra), è uno come noi. Sentiamo la sua storia così vicina perché apparteniamo a quella generazione di viaggiatori, di sognatori, sempre in movimento, anche se in molti ci etichettano come “sdraiati” .
C’è una forma antica, ma tuttora attuale, che voglio usare per alzarmi, per alzare la mia generazione e per dare voce a Patrick.
“Caro Patrick,
forse non abbiamo fatto abbastanza.
Anzi, forse non stiamo facendo abbastanza. Noi che come te non ci siamo mai tirati indietro, per scendere in piazza, per farci sentire, forse non stiamo facendo tutto quello che possiamo. Forse sai che sì, siamo scesi in piazza, ma più di noi italiani – ormai tuoi concittadini – l’hanno fatto i nostri fratelli in giro per il mondo. Vengono organizzate fiaccolate, cortei in piazza, flash mob e poi? Alla fine dei conti tu sei ancora in carcere, alla fine dei conti noi viviamo “sicuri nelle nostre case” e di ciò che c’è fuori forse non ce ne frega così tanto. Forse è solo un modo per sentirci migliori, fare il giusto per non sentirsi in colpa. La colpa d’esser nati in Italia, di essere italiani a tutti gli effetti – con uno dei passaporti più potenti al mondo – e parte di quel sogno bellissimo dell’Europa.
Quel mondo migliore che i nostri compagni, un po’ più anziani di noi, si sono immaginati mentre stavano rinchiusi in quella prigione a cielo aperto: Ventotene.
Mi piace immaginarti così – come i nostri padri fondatori – forse per non pensare davvero al male che il mondo può infliggere a un ragazzo come te. “Sul suo volto c’era tutto il male del mondo“: sono queste le parole della mamma di Giulio. Com’è possibile che la tua storia sia per certi versi così simile alla sua?
Mi piace immaginarti come ti ha dipinto sulle mura di Roma una street artist italiana, tenuto stretto tra le braccia di Giulio che ti dice: “questa volta andrà tutto bene”. E mi sforzo a pensarti così. Se no, non mi spiegherei com’è possibile che non siamo arrivati pronti, preparati per salvarti, che non abbiamo veri mezzi per renderti libero. Deve davvero andare a finire così? Sotto gli occhi increduli del mondo, dell’Europa e dell’Italia. Gli stessi stati che firmano trattati, che si uniscono in patti, che si dicono pacifici e democratici. Cosa ce ne facciamo della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 se poi tu sei sdraiato per terra senza forze in un carcere di massima sicurezza? A cosa è servita la seconda Guerra Mondiale, la riorganizzazione degli Stati, la caduta del Muro e dei muri, se poi tu non sei qui con noi?
Cosa diremo ai nostri figli quando ci chiederanno dove eravamo mentre intorno a noi venivano commesse molteplici ingiustizie? “Le nostre vite cominciano a finire il giorno in cui stiamo zitti di fronte alle cose che contano“. Così dice Martin Luther King e pensando al suo di sogno.
Oggi io penso al tuo, al nostro. Forse in fondo la storia è la stessa, ma le atrocità avvengono direttamente da parte di chi è chiamato a difendere i propri cittadini. Forse in fondo la storia è la stessa, ma le atrocità peggiori avvengono direttamente da parte di chi è chiamato a difendere i propri cittadini. Per me questa è l’ingiustizia più grande.
Se mai dovessero raggiungerti queste mie parole, sappi che sono le parole di una comunità. Sono le parole di giovani che ieri un’amica più grande ha definito “etici”. Mi fa sorridere questo termine, Patrick. Mi fa sorridere essere chiamati prima pigri e sdraiati e poi etici. Che poi dove inizia l’etica? Forse la generazione prima di noi ci ha lasciato un fardello enorme e fa paura. Fa paura pensare di non avere le forze per aggiustare tutto questo, per rimettere insieme i pezzi e immaginare un mondo nuovo. Nel manifesto di questa nuova comunità – che mi immagino – sicuramente ci sarebbero le parole contenute nella tua lettera: “Continuo a pensare all’università, all’anno che ho perso senza che nessuno ne abbia capito la ragione”.
Un mondo nuovo dove sia davvero garantito il diritto alla ricerca e al viaggio.
È davvero difficile trovare un modo per salutarti, nessuna parola sarebbe abbastanza.
Allora ti auguro la libertà, anche in mezzo a quelle sbarre.
Ti abbraccio forte, Patrick.
Ti aspettiamo a Bologna.
Patrick George Zaki libero subito! Firma l’appello di Amnesty