Dialoghi antispecisti: l’intersezione delle lotte nel festival Non Solo Lesbiche
Il racconto del festival cagliaritano giunto all’ottava edizione
La bella stagione cagliaritana è solita vestirsi di dettagli peculiari, che danzano irrequieti tra il calore del sole, presagio di giornate estive, e l’impeto del maestrale che con saggezza smorza la fantasia delle vacanze. In questa cornice caratteristica del meridione isolano, l’equinozio di primavera diviene culla della rassegna culturale “Non Solo Lesbiche”, giunta ormai alla sua ottava edizione che quest’anno si è svolta nel fine settimana tra il 14 e il 16 aprile, e alla quale la redazione di Change the Future ha potuto partecipare, sbirciando tra gli appuntamenti proposti.
“Non Solo Lesbiche” è una rassegna di cultura queer e transfemminista che prende corpo dall’organizzazione delle volontarie dell’associazione LGBTQIA+ Arc Cagliari (IN FONDO I LINK AI VIDEO DEGLI INCONTRI). A partire dal 2015, infatti, si è mostrata sempre più forte la necessità di uno spazio sicuro e stimolante in cui si potessero porre al centro le questioni concernenti le donne lesbiche, soggette a una doppia forma discriminazione per quanto riguarda il loro orientamento sessuale e il loro genere di appartenenza. Si pensò così di organizzare un festival della durata di tre giorni, che per i primi anni di vita ha abitato gli ambienti del Lazzaretto, nel quartiere popolare costiero di Sant’Elia. Attraverso eventi culturali quali presentazioni di libri, proiezioni cinematografiche, laboratori e mostre d’arte, alternati a serate e aperitivi di autofinanziamento, per otto anni si è riuscite a sensibilizzare il pubblico sugli argomenti più diversi, dall’evoluzione dell’identità lesbica nella cultura pop, alla riflessione sui corpi, dalla soggettività del desiderio alle intersezioni con altre lotte per la parità dei diritti.
La tematica di quest’anno è stata particolarmente affine alle ragioni d’interesse della nostra redazione, dandoci la possibilità di confrontarci con un ulteriore punto di vista sul futuro del nostro pianeta: l’intersezione tra Antispecismo e Queerness.
Le due tematiche sono estremamente legate tanto alla lotta contro le oppressioni sociali, quanto alla salvaguardia dell’ambiente e dunque, in definitiva, alla creazione di un futuro migliore.
Quando si parla di Antispecismo ci si riferisce al pensiero filosofico, politico e culturale che si oppone alla credenza secondo cui la specie umana sarebbe superiore alle altre specie viventi. Così come l’antirazzismo si oppone alla discriminazione basata sulla supposta esistenza di differenti razze umane, e l’antisessismo si oppone all’oppressione sulla base del genere, l’antispecismo si oppone allo specismo, ovvero l’oppressione sulla base della specie. La filosofia antispecista affonda le sue radici sulla consapevolezza che gli animali, in quanto esseri capaci di sentire, di provare dolore, di esprimere una propria volontà, siano esseri morali, aspetto che li caratterizza quali persone non umane. A partire da ciò, il rapporto tra esseri umani e persone non umane cambia radicalmente: risulta infatti illegittimo e immorale pensare che gli esseri umani si trovino in una condizione di potere tale da poter disporre della vita, della dignità e della libertà degli animali di altre specie.
Le conseguenze dirette dell’antispecismo si possono riscontrare nelle abitudini alimentari – dal momento in cui non si ha il diritto di disporre della vita degli animali, la filosofia antispecista supporta infatti la dieta vegana -, ma in realtà le sue implicazioni sono innumerevoli. Sorge abbastanza spontaneo infatti pensare al collegamento tra l’antispecismo e le altre numerose battaglie che si oppongono alle oppressioni delle minoranze, e all’esistenza di una norma plasmata su un paradigma maschile, eterosessuale, bianco, cisgender – e in questo caso, umano – che sopprime tanto in maniera figurata quanto letterale chiunque non rientri in essa.
“Non Solo Lesbiche” ha voluto approfondire questa intersezione con cinque appuntamenti: la presentazione di due libri in compagnia delle rispettive autrici (“Capitalismo Carnivoro” di Francesca Grazioli e “Intersexioni – Antologia multidisciplinare” di Michela Balocchi), il laboratorio di introduzione alla fermentazione con Marcello Contu, fondatore del progetto Veghu, l’aperitivo vegano con dj set e il Convegno. Quest’ultimo appuntamento, svoltosi nella sede dell’associazione Arc Cagliari, è stato finalizzato all’approfondimento della tematica attraverso gli interventi di cinque esperte. Il titolo del convegno, “Belve e Fiere: l’oppressione dei corpi non conformi e degli animali non umani” circoscrive l’argomento attorno alla questione dell’esistenza dei corpi considerati fuori dalla norma, siano essi umani o non umani, nello spazio sociale. A tale scopo, sono state prese in esame diverse tipologie di oppressione che interessano i corpi.
A introdurre il tema è stata Michela Balocchi, sociologa e cofondatrice del collettivo Intersexioni; da più di dieci anni Michela si occupa, sia a livello accademico che di attivismo, di intersessualità, ovvero delle variazioni a livello cromosomico e/o ormonale e gonadico non riconducibili alla categorizzazione binaria maschile-femminile. Talvolta, questo genere di variazioni si riflettono anche a livello dei caratteri sessuali primari e/o secondari, che possono avere conformazioni differenti rispetto alla norma: ciò ha comportato che, già a partire dagli anni 70, le neonate e i neonati intersex venissero sottopost* a degli interventi chirurgici in grado di far rientrare i loro caratteri sessuali nel binario ormai noto, anche in maniera innecessaria. Balocchi fa notare, infatti, che questo genere di interventi, quando non rientrano nell’ambito degli interventi salvavita, è agito dal personale medico per evitare che la conformazione anomala dei genitali possa portare la persona, in età adulta, a sviluppare un’identità di genere non binaria.
Ma a cosa ci riferiamo quando parliamo di “norma”? Daria Campriani, attivista transgender e parte del direttivo di Intersexioni, amplia il discorso in relazione all’oppressione dei corpi delle persone transgender. Servendosi di un rimando mitico-musicale alla tetralogia de “L’anello del Nibelungo” di Richard Wagner, avanza delle domande fondamentali sulla norma: la sua origine, il perché della sua esistenza, la sua utilità. Ne emerge una riflessione composita sulla fondazione delle società umane per mezzo di norme individuate e accettate dalla comunità come pilastri necessari per poter tessere rapporti interpersonali.
Rispettando e aderendo a tali norme, e nello specifico alle norme di genere, si può infatti accedere a una serie di vantaggi sul piano sociale, ma chi non aderisce ad esse (dunque le persone transgender, e più in generale i corpi queer) entra in una situazione di totale paradosso che Campriani definisce “circo di genere”. Tale dicitura suggerisce che chi non rientra nella norma eterosessuale e cisgender si ritrova a vivere all’interno di un sistema normativo/sociale che lo esclude esplicitamente, senza però poter mai concretamente uscire dal sistema stesso, poiché la finalità del sistema è quella di collocare e categorizzare ogni essere che lo abita. E il posto occupato dai corpi non conformi, umani e non umani, è il margine. L’esistenza di tali corpi è consentita dunque solo a patto di garantire la sussistenza della norma esistente, e dunque di non sovvertirla.
In merito agli spazi occupati dai corpi non conformi si aggancia l’intervento di Ester Cois, sociologa del territorio e docente all’Università di Cagliari. Viviamo in un’era geologica che viene definita “antropocene”, termine che rimanda alla capacità dell’essere umano di sfruttare il mondo che lo circonda per volgerlo a proprio favore, ma che vuole anche fare riferimento al supposto primato dell’essere umano su tutte le altre specie viventi, che sarebbero a lui sottoposte. Ma tale essere umano, evidenzia Cois, rappresenta un paradigma escludente e assolutamente insostenibile per il mondo contemporaneo e futuro, identificabile nell’uomo, bianco, eterosessuale, cisgender dominante. Tutto ciò che elude tale paradigma (chiaramente una moltitudine vastissima e diversificata di esistenze) è relegato in spazi sociali che possono essere definiti in tutto e per tutto delle “case di bambola” totalmente separate dai contesti comunitari e pubblici – si pensi anche solo ai parchi destinati a bambine e bambini, mentre gli spazi cittadini sono sempre più plasmati sulle necessità produttive dell’uomo adulto -. Non solo: le soggettività non conformi vengono giudicate e analizzate tramite dei parametri normativi che a loro non appartengono. Prendiamo come esempio, la narrazione che recentemente è stata fatta dell’orsa JJ4, “colpevole” di aver aggredito e ucciso un runner nelle foreste del Trentino, e giudicata alla stregua di un killer umano. Uno dei più dannosi errori della norma sociale è la pretesa di imporre illegittimamente sé stessa a tutte le casistiche in maniera acritica, anche quando le situazioni concrete si collocano evidentemente al di fuori di essa.
L’intervento di Chiara Meloni, antispecista e cofondatrice del progetto “Belle di Faccia”, sposta il focus su un’ulteriore tipo di oppressione: quella riguardante i corpi grassi. Come fa notare giustamente l’attivista, le persone grasse non sono abituate ad essere coinvolte in questo genere di discussioni, per due motivi fondamentali: in primo luogo ancora non è facile far riconoscere alle persone il peso della discriminazione grassofobica, e secondariamente le persone grasse vengono difficilmente prese sul serio in merito alla tematica antispecista. Come è stato accennato prima, infatti, uno dei pilastri dell’antispecismo è anche la scelta di una dieta vegana, che nel corso degli anni ha costruito la sua fortuna sulla falsa promessa di essere una dieta più salutare, capace di donare a chi la sceglie un corpo tonico e conforme, complici anche alcuni recenti spot pubblicitari. Nella società attuale il grasso continua infatti ad essere legato al concetto di disgusto, e ai pregiudizi che vedono le persone grasse come ingorde, sporche, meno intelligenti, incapaci di autocontrollo e, infine, come più vicine alle bestie che agli esseri umani. Da qui si deduce che l’anello di congiunzione tra i corpi non conformi umani e animali sia anche rappresentato dal senso di disgusto che porta a considerare i corpi oppressi come inferiori e privi del diritto alla dignità. Ma, sottolinea Meloni, tutti i corpi hanno diritto di esistere e di essere rispettati, a prescindere dallo stato di salute e dalla conformità ai canoni eteronormativi e antropocentrici.
Sul fil rouge dell’alimentazione vegetale interviene Francesca Grazioli, ricercatrice e gastronoma, che riflette sulle possibili forme di resistenza alla norma. Viene introdotto in questa sede il concetto di “cibo psicologico”, a cui durante il convegno si era già fatto breve accenno, che sottolinea come anche le nostre abitudini alimentari si facciano specchio della reiterazione dei ruoli di genere: il consumo di carne è infatti storicamente e culturalmente associato al potere e alla virilità (si pensi, nei secoli passati, ai sovrani che ostentavano il loro dominio attraverso le tavole traboccanti di cacciagione, o più recentemente alla figura emblematica dell’uomo che arrostisce la carne durante un barbecue). Al contrario, il genere femminile è culturalmente associato alla dieta vegetariana, non tanto per una qualche scelta etica o ragione politica, quanto piuttosto perché rimanda a una certa idea di purezza e moralità stereotipicamente femminili. In questo modo, il nostro rapporto con il cibo è totalmente alienato e spogliato del suo valore intrinsecamente rivoluzionario. La scelta antispecista e vegana rappresenta infatti la concreta opposizione allo sfruttamento animale all’interno degli allevamenti intensivi, strutture in cui gli animali trovano una morte violenta e un totale disconoscimento della loro dignità, e i lavoratori si fanno complici alienati di tale macchina della morte per necessità economiche.
Dalle riflessioni elaborate durante il convegno, emerge chiaramente come il fulcro dell’intersezionalità sia esattamente questo: l’individuazione di una matrice comune tra forme di ingiustizie sociali altrimenti considerate indipendenti l’una dall’altra. La necessità di individuare l’anello di congiunzione diviene dunque fondamentale al fine di unire tutte le soggettività oppresse da un sistema economico-valoriale ormai insostenibile, che necessita una sovversione.
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