Dietro le sbarre: madri e figli nel carcere di Rebibbia
Roma. Carcere di Rebibbia. Entriamo nella sala comune della sezione nido per incontrare le detenute. Sistemiamo le sedie in cerchio e le donne prendono posto. Insieme a loro ci sono i figli. Il reparto femminile ospita 15 mamme con relativi figli, il numero più alto in Italia.
La legge n.40/2001, “Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori”, permette alle madri detenute, anche a pene elevate, di espiare la pena nella propria abitazione o in altro luogo di cura, assistenza o accoglienza (come le case-famiglia), per tutelare l’interesse prioritario del minore e limitare i danni dovuti alla carcerazione forzata. La concessione di tali benefici però non è automatica e va valutata caso per caso.
Per conoscere meglio la realtà delle madri e dei figli in carcere intervistiamo l’associazione “A Roma, Insieme”, presente a Rebibbia dai primi anni ’90. “Siamo un’associazione di volontariato che si occupa di far conoscere un mondo diverso ai bambini”, raccontano i volontari. Obiettivo principale di “A Roma, Insieme” è che nessun bambino varchi più la soglia di un carcere, non sulla base di un perdonismo, ma per tutelare l’interesse prioritario del minore.
In questo senso, duplice è la loro missione: realizzare una serie di attività concrete, volte a limitare i danni del carcere sui bambini, e sensibilizzare l’opinione pubblica e istituzionale per favorire misure alternative alla detenzione e il reinserimento sociale delle donne al termine della pena.
Giovane bracciante, donna delle istituzioni regionali e parlamentare per due legislature, la fondatrice Leda Colombini dedica la sua vita alla salvaguardia degli interessi delle fasce più svantaggiate della società e all’età di settanta anni lascia la politica per dedicarsi alla situazione delle madri e dei figli nelle carceri romane. La sua combattività di bracciante la porta a supportare l’accesso all’istruzione per questi bambini e a organizzare uscite settimanali per far vivere loro un giorno di vita normale, affinché conoscano un mondo diverso da quello racchiuso dalle sbarre: “Con la sua macchina lei e una sua amica prendevano i bambini il sabato mattina e con l’autorizzazione delle mamme li portavano in giro per la città”.
Durante il periodo di reclusione, che deve tendere alla rieducazione del detenuto come sancito dall’articolo 27 della Costituzione italiana, il detenuto ha l’opportunità di riabilitare la propria persona, ma solo se posto in condizione di poterlo fare. Fondamentale in questo senso è il lavoro. Alcune detenute lavorano nella cucina del carcere o svolgono attività di volontariato. Il lavoro che vengono chiamate a svolgere è nella maggior parte dei casi non retribuito, un principio educativo sbagliato sotto molteplici aspetti.
Nelle case-famiglia, invece, le donne vengono seguite singolarmente e preparate all’uscita. Insieme ai volontari si lavora per ottenere i permessi e i documenti necessari, e grazie all’ausilio del COL, centro orientamento lavoro, vengono fornite borse lavoro trimestrali di circa 430 euro al mese.
L’associazione “A Roma, Insieme” collabora con altre realtà locali e nazionali al fine di creare una rete di associazioni a sostegno del reinserimento della donna nella società e per sensibilizzare le imprese locali a presentare opportunità lavorative affinché questo sia possibile.
Negli ultimi anni l’associazione si è fatta promotrice di un’iniziativa tesa a modificare le leggi esistenti e a supportare la misura alternativa della detenzione domiciliare. Il progetto di legge n. 2298, “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e alla legge 21 aprile 2011, n. 62, in materia di tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori”, ha trovato il sostegno di diversi legislatori, primo tra tutti Paolo Siani (PD) e in seguito Gilda Sportiello (M5S).
Il supporto che Stefano Anastasia, garante regionale, e Gabriella Stramaccioni, garante comunale dei diritti dei detenuti, offrono all’associazione dimostra che c’è attenzione sul tema.
Si avverte un clima favorevole, “dobbiamo studiare iniziative e momenti di pubblicità e confronto affinché la modifica non resti sepolta tra gli atti della Camera e venga inserita nella discussione”.
A livello nazionale sono 52 donne e 57 bambini che si trovano nelle carceri, secondo i dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) aggiornati al 31 gennaio 2020.
La legge n° 354 del 26 luglio 1975 sull’ordinamento penitenziario consente alle madri detenute di tenere con sé i figli fino all’età di tre anni. All’interno delle carceri, medici, psicologi, educatori e volontari operano per tutelare la salute psico-fisica delle madri e dei figli in un momento così delicato per lo sviluppo fisico ed emotivo del bambino.
Per limitare i danni che l’esperienza della carcerazione forzata può causare al minore, nel 2011 sono stati creati istituti a custodia attenuata (ICAM), strutture il cui ambiente ha l’obiettivo di ricordare l’atmosfera di una casa. Un decisivo passo avanti rispetto alla legge precedente, che però ha trovato applicazione limitata per mancanza di fondi. Attualmente gli Istituti di questo tipo sono solo cinque, Torino “Lorusso e Cutugno”, Milano “San Vittore”, Venezia “Giudecca”, Cagliari e Lauro. In altri istituti, come Rebibbia a Roma, sono previste sezioni nido all’interno delle carceri femminili.