Lampedusa, i punti di vista di chi approda e di chi accoglie
«Non c’è nulla da vedere», esorta un pescatore ai giornalisti intenti a fotografare l’ennesimo barcone di migranti in arrivo. «Voi – aggiunge con seccatura – non raccontate la verità».
Si accende una sigaretta e si posiziona di fronte al barcone, quasi a voler coprire la scena. Da un lato uno sbarco, dall’altra i giornalisti che fotografano, e in mezzo un pescatore che vive e lavora a Lampedusa da anni, e che ha il posto barca accanto al CPSA – Centro di Primo Soccorso e Aiuto. Ognuno di loro ha un punto di vista e una prospettiva diversi.
«Per venticinque anni sono stato su quel molo», racconta Pietro Bartolo – medico che per anni si è occupato di primo soccorso ai migranti in arrivo a Lampedusa e Vicepresidente della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni del Parlamento europeo (LIBE) – «senza riflettori, senza che nessuno ne parlasse. Sono sempre stato il primo a visitarli, sulle barche, prima ancora che toccassero la terraferma»
«Sono stato intervistato da tutte le televisioni del mondo, perfino – sottolinea sorridendo – da quelle arabe e cinesi. Ma poi mi sono accorto che non cambiava nulla, e ho iniziato a scrivere. Ho scritto libri, ho fatto film e articoli perché era un’urgenza, e una responsabilità».
È con rabbia, e a tratti disillusione, che Pietro Bartolo racconta il suo ruolo di medico, e di testimone. Nel farlo, alle sue spalle è in corso il settimo sbarco della giornata, i migranti salgono sulla terraferma. Sono un’immagine lontana che trova nitidezza attraverso le parole di Bartolo.
Le persone migranti sono oggetto di comunicazione di tutti, ma le loro testimonianze faticano a trovare spazio. Sono una massa indistinta, un fenomeno sul quale ognuno può costruire una propria immagine, lasciando volti e voci di ognuno di loro come sfondo sfuocato.
«Quando è arrivata la guerra – spiega R. H, siriano immigrato a Lampedusa nel 2013 – siamo scappati in Libia, ci siamo rimasti un anno, per poi iniziare il viaggio sofferente verso l’Europa, con mia moglie e i miei figli. Durante la traversata le autorità libiche ci hanno sparato, ed è iniziato il caos. Alle 4.30 del mattino la barca si è rovesciata e, i miei figli ed io, siamo caduti in mare».
R.H è sopravvissuto, e porta la sua testimonianza di immagini atroci e lunghi silenzi. «Io sono qui, ma sono passati 8 anni e sto ancora cercando i miei figli».
Per chi approda, Lampedusa è la fine del proprio calvario, e al tempo stesso l’inizio di uno nuovo. Per chi è sull’isola, e si trova ad accogliere, la prospettiva è diversa: lo sguardo volge verso l’indefinito, il mare aperto, portatore di incertezza e spazio di continua tensione.
L’isola di Lampedusa rischia di divenire un non-luogo, dove le persone si incontrano e si scontrano senza mai entrare in relazione tra loro.
«La notte tra il 2 e il 3 ottobre 2013 ero con amici in barca e – racconta Vito Fiorino, pescatore nato a Bari, cresciuto a Milano e traferitosi poi a Lampedusa nel 2000 – ad un certo punto sentiamo del vociare. Pensavamo fossero gabbiani, ma non eravamo sicuri. Per capire siamo andati verso il largo, e ci siamo trovati di fronte ad uno scenario terrificante: almeno 200 persone in mare che chiedevano aiuto.
Ho avuto paura, e ho chiamato la capitaneria di porto. Poi ho iniziato a far salire le persone sulla mia barca, erano quasi tutti nudi e sporchi di gasolio. Facevo fatica a portarli a bordo, loro erano stremati e non riuscivano ad aiutarmi.
Chiedo ad un ragazzo quanti fossero, e lui mi fa capire che erano più di 500 persone, ma 500 persone in mare non c’erano. Lì ho capito che si trattava di una tragedia in corso».
Vito Fiorino quella notte ha salvato 47 persone, divenendo testimone di uno dei più grandi naufragi degli ultimi anni, il 3 ottobre 2013 sono morte 368 persone a mezzo miglio dalle coste di Lampedusa. I superstiti raccontano di due imbarcazioni che quella notte si sono avvicinate, li hanno avvistati e illuminati, ma poi se ne sono andate, lasciandoli in mare. Lo scafista della barca, per attirare l’attenzione e cercare aiuto, diede fuoco a una coperta. Quest’ultima si spezzò in due, cadendo nel vano motore e provocando un incendio a bordo. Lì cominciò la tragedia.
Lo scafista è stato condannato a luglio 2015, mentre la sentenza per omissione di soccorso è stata a dicembre 2020, 7 anni dopo il naufragio.
«Quella notte le motovedette della capitaneria sono arrivate un’ora dopo e – prosegue il pescatore – una volta arrivate, ho chiesto di spostare sulla loro barca le persone che erano sulla mia, in modo tale da poter far salire altre persone. La risposta che ho ricevuto è stata: il protocollo non lo consente». Fa una lunga pausa, e con le mani tremanti, Vito commenta che «la morte non conosce protocolli, e neanche l’istinto di un essere umano di salvare un’altra vita».
Lampedusa, isola il cui nome evoca immagini di persone migranti in arrivo, di disperazione e, spesso narrata come terra al collasso, è crocevia di culture e storie, e spazio di sincretismo culturale. Chi approda e chi accoglie entrano in relazione, dando nuova identità all’isola.
«Ho dato ospitalità a centinaia di ragazzi, – spiega Lillo Maggiore, assistente amministrativo in una scuola a Lampedusa – poi è arrivato Seydou, un ragazzo senegalese che da 8 anni vive con noi. È un figlio che ci è arrivato dal mare. Ho capito che l’accoglienza non è un semplice gesto, ma un segno di civiltà».