La profilazione etnica e il razzismo 3.0
La profilazione etnica (o razziale) è stata definita, nel Giugno del 2007, dall’ECRI, la “Commissione Europea contro il razzismo e l’intolleranza” come “l’uso da parte delle forze dell’ordine, quando procedono a operazioni di controllo, sorveglianza o indagine, di motivi quali la razza, il colore della pelle, la lingua, la religione, la nazionalità o l’origine nazionale o etnica, senza alcuna giustificazione oggettiva e ragionevole”.
Nonostante faccia tristemente parte della nostra società, la profilazione etnica, è un fenomeno strutturale, pervasivo, poco osservato e monitorato in Italia (e in Europa). Per molti versi sconosciuto. Proprio per questo, oggi trovare dei dati a riguardo è piuttosto complicato.
I sociologi John Scotson e Norbert Elias, usano l’espressione Pars-Pro-Toto Fallacy per delineare la situazione in cui la società maggioritaria (il gruppo dominante), in base al comportamento di pochi individui di un gruppo minoritario, riproduce inconsciamente stigmatizzazioni, applicandole all’intero gruppo, causando comportamenti fortemente discriminatori. Questo ragionamento può in parte spiegare come mai questa pratica sia ormai nelle fondamenta della nostra società e soprattutto, perché questo fenomeno, nonostante sia di grande rilevanza, passi troppo spesso in sordina.
Secondo Dunja Mijatović, Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, la profilazione etnica è una pratica sempre più diffusa, che si manifesta in maniera marcata in numerosi settori di cruciale importanza come, ad esempio, quello delle politiche governative. Conferendo poteri discrezionali eccessivi alle forze dell’ordine, questi potrebbero essere pericolosamente utilizzati per prendere di mira gli individui sulla base di caratteristiche come il colore della loro pelle, la loro religione o la loro lingua.
Una delle forme più diffuse dell’ethnic profiling è l’uso di procedure come arresto e perquisizioni nei confronti di gruppi stranieri o minoritari. Un modello correlato è l’esecuzione di ulteriori controlli di identità ai punti di attraversamento delle frontiere, negli aeroporti, nelle stazioni ferroviarie e della metropolitana. Anche nell’ambito giudiziario è un tema tristemente ricorrente in quanto, spesso, persone appartenenti a gruppi minoritari ricevono sentenze più severe.
Nel 2018, la “FRA”, European Union Agency for Fundamental Rights, ha condotto un ampio studio, “Being Black in the EU”, in occasione del quale sono state esaminate le esperienze di quasi 6mila persone di discendenza Africana (più di 59 paesi di origine) che vivono in 12 stati membri dell’UE, tra cui l’Italia. Tra tutti gli intervistati, il 44% ritiene che l’ultimo arresto subito sia stato a sfondo razziale, opinione che è stata condivisa pienamente dal 70% degli intervistati in Italia, tasso percentuale più alto tra tutti i paesi coinvolti.
La profilazione etnica viola il principio fondamentale secondo cui le azioni di contrasto dovrebbero corrispondere alla condotta di un individuo, non alla sua identità. La pratica porta alla violazione di trattati internazionali che proteggono i diritti fondamentali. Inoltre, viola le leggi europee e nazionali, tra cui quelle relative al divieto di discriminazione, alla libertà di movimento, di religione, di sicurezza ed è una chiara violazione della privacy. Le perquisizioni infatti possono essere invasive e gli individui fermati possono provare sentimenti di umiliazione e imbarazzo.
Le Nazioni Unite, il Consiglio d’Europa e l’Unione Europea hanno emesso numerose raccomandazioni per porre fine a questa pratica. La Corte Europea dei Diritti Umani, il 13 Dicembre del 2005, in occasione della sentenza Timishev vs. Russia (55762/00 e 55974/00), ha affermato che: “Nessuna differenza di trattamento basata esclusivamente o in misura decisiva sull’origine etnica della persona è suscettibile di ottenere obiettiva giustificazione in una società contemporanea fondata sui principi del pluralismo e il rispetto per le differenti culture”.
Ma come è possibile tentare di porre un freno a questa pratica?
La raccolta e la pubblicazione di dati statistici sulle attività della polizia è decisiva. In particolare per quantificare il fenomeno, aumentare la trasparenza e la responsabilità dei soggetti che contribuiscono a portare avanti questa pratica. Ogni stato dovrebbe adottare una legislazione che definisca e punisca questa pratica circoscrivendo i poteri discrezionali delle forze dell’ordine che dovrebbero basare le loro azioni su informazioni concrete. Certamente, fornire spiegazioni ogni talvolta che si ferma un individuo può contribuire ad aumentare la fiducia nelle forze dell’ordine e a dissipare la percezione di una profilazione basata meramente su pregiudizi.
I media, dal canto loro, avendo un potere di influenza su larga scala, dovrebbero evitare di stereotipare individui appartenenti a gruppi minoritari, così come migranti, rifugiati e richiedenti asilo. Ciò può contribuire a una pericolosa normalizzazione delle pratiche discriminatorie. Al contrario, dovrebbe essere normalizzata una narrazione positiva che sia capace di riflettere il contributo dei gruppi minoritari alle comunità in cui vivono. Sempre nella comunicazione con i media, le forze dell’ordine dovrebbero prestare molta attenzione a non perpetuare pregiudizi collegando l’origine nazionale o lo status di immigrato all’attività criminale.
Anche l’intelligenza artificiale ha il suo impatto nel riprodurre le discriminazioni. Alimentare un algoritmo con dati che riproducono pregiudizi esistenti o che provengono da fonti discutibili non farà altro che portare a risultati distorti, inaffidabili e di conseguenza a decisioni deleterie nei confronti di determinate categorie di individui. Ecco perché i governi dovrebbero mettere in atto una serie chiara di norme e regolamenti riguardanti la sperimentazione e la successiva applicazione di qualsiasi strumento algoritmico progettato per supportare i processi decisionali. Dovrebbe essere introdotto un periodo di prova che valuti se il sistema che utilizza pratiche AI sia effettivamente conforme e non discriminatorio. Inoltre, è necessario un sistema che valuti l’impatto sui diritti umani da parte di un’autorità indipendenti e che imponga obblighi di trasparenza e divulgazione rafforzati, insieme ad una solida legislazione sulla protezione dei dati che affronti i problemi legati all’intelligenza artificiale.