La piramide specista: il sistema che distrugge il pianeta
Fin dagli albori del periodo rinascimentale, e non è un caso che venga anche definito “Umanesimo”, l’essere umano è sempre stato abituato a pensare a se stesso come il centro del mondo e, anche dopo la rivoluzione scientifica, sono innumerevoli le teorie filosofiche che hanno posto teleologicamente l’Uomo come fine e culmine dell’intero universo.
L’Uomo tracotante ha così deciso che il metro di misura per giudicare ogni forma di vita fosse il possesso o meno della Ragione, di fatto subordinando tutto solo e unicamente a se stesso.
Così facendo ha finito per distruggere in modo irreversibile interi habitat, pretendendo di creare una “piramide specista” e arrogandosi il diritto di decidere chi o cosa abbia il permesso di vivere in una Terra che esiste da milioni di anni prima del suo arrivo.
Tutto è stato relativizzato secondo la sua visione e così porta con sé il fidato amico a quattro zampe in vacanza al mare, ma si sente allo stesso tempo legittimato a seppellire una medusa sotto la sabbia solo perché è ritenuta un pericolo, pericolo che per altro ha contribuito a creare lui, spingendo queste creature sempre più numerose vicine alla spiaggia a causa del riscaldamento globale.
Fortunatamente, però, sono sempre di più le persone che cercano di opporsi a quest’ottica desolante adottando uno stile di vita vegano, vegetariano, o comunque più consapevole, che miri ad una totale ridefinizione del rapporto tra Uomo e Natura; un sistema in cui esseri impotenti non siano più costretti a vivere in luoghi di tortura per poi divenire nutrimento sopra le nostre tavole.
Se, infatti, l’Uomo è il fulcro di ogni cosa ne deriva che ogni altro essere vivente divenga automaticamente meno importante e, di conseguenza, anche la sua tutela cessi di essere fondamentale e venga subordinata ai bisogni umani, influenzando le scelte politiche in modo sostanziale.
Nei giorni scorsi si è tenuto a Belem (Brasile) il vertice per trovare un accordo internazionale contro il disboscamento dell’Amazzonia, ma l’incontro fortemente voluto dal neo-presidente Lula, non ha raggiunto i risultati sperati a causa del disaccordo tra Brasile, Bolivia, Colombia, Ecuador, Guyana, Perù, Suriname e Venezuela.
Eppure sono moltissime le popolazioni indigene, tra cui molte autoctone proprio dell’Amazzonia, che, vivendo a stretto contatto con la natura, hanno saputo trarre da questa profonda interconnessione un insegnamento sconfinato basato sul “do ut des” e non sullo sfruttamento indiscriminato di suolo e animali, capendo come servirsi delle risorse in modo consapevole e sostenibile per non nuocere all’ambiente che li ospita.
Questi popoli, infatti, si sentono legati alla natura da un vincolo di ospitalità e verso di essa avvertono il dovere sacrale di dimostrare la loro riconoscenza attraverso riti e cerimonie.
Nulla di più lontano dalla concezione neoliberista dell’Uomo come padrone del mondo che si serve come e quanto vuole delle risorse che il territorio gli offre.
Ma chi dovrebbe occuparsi della loro salvaguardia troppo spesso preferisce ignorare questa immensa ricchezza, continuando ad assegnare indiscriminatamente le terre abitate da queste popolazioni per convertirle in terreni coltivabili, un nuovo volto della colonizzazione difficile da fermare.
La scomparsa di questi popoli, però, non sarebbe un’enorme perdita “unicamente” dal punto di vista umano, perché è grazie a loro se la biodiversità amazzonica (e non solo) è riuscita a sopravvivere: attraverso un progetto minuzioso e trasversale sono stati in grado di monitorare e preservare innumerevoli specie di animali, piante e funghi; questa visione è stata definita “antispecista” proprio per questa orizzontalità nel guardare all’ambiente circostante, senza alcuna gerarchia.
Basti pensare che, nonostante rappresentino il 5% della popolazione globale, secondo l’Australia’s State of the Environment report del 2021, questi popoli sono responsabili della conservazione dell’80% della biodiversità mondiale.
Ma non sono solidali “solo” con l’ambiente, all’interno delle comunità tribali, infatti, ognuno sente una costante responsabilità individuale nel cooperare col prossimo per creare una società basata sullo scambio e l’attenzione reciproci. Nelle comunità gode di maggior rispetto chi meglio comprende che l’aiuto vicendevole è il fondamento su cui costruire una società solida e prospera.
Comprendere il vincolo di ospitalità che ci lega all’ambiente è fondamentale perché è inaccettabile che si assista ancora a vere e proprie cacce alle streghe nei confronti di orse o squali colpevoli solo di aver difeso il loro territorio da quello che è, a tutti gli effetti, un invasore inconsapevole dello spazio in cui vive.
Se, invece, queste popolazioni divenissero il modello globale a cui aspirare, questo nuovo modo di pensare al rapporto tra Uomo e Natura potrebbe diventare la chiave di volta per combattere il cambiamento climatico e la deforestazione.
Preservare la biodiversità non è solo giusto, ma un dovere etico e civile, una responsabilità che siamo chiamate e chiamati a prenderci nei confronti delle generazioni future di ogni specie del Pianeta.