Diversi, ma uguali: intervista a Fabrizio Acanfora, Neurodiversity Advocate
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“Anch’io ho moltissimi privilegi che tendo a dare per scontati. Sono un uomo, sono europeo e sono bianco. Mi è capitato davvero spesso, in riunioni di lavoro, di essere al tavolo con diverse donne, e mi hanno fatto notare (perché pensa, io nemmeno me ne accorgevo!) che la mia voce aveva molta più autorevolezza di una voce femminile. Questa ovviamente è un’ingiustizia di cui non voglio essere parte in causa.
…Cosa posso fare? Ascolto le mie colleghe che manifestano il problema, e mi assumo la responsabilità di evitare che avvenga. Ma come potrei sapere come ci si sente ad essere donna, se non ascoltassi la mia collega? Se non conferissi a lei e alla sua voce la stessa dignità che ho io, come potrei parlare di uguaglianza?” (Fabrizio Acanfora è stato diagnosticato Asperger all’età di trentanove anni)
Se ci facciamo attenzione, siamo quasi tutti in qualche modo un po’ privilegiati. Privilegio è poter dare moltissimi diritti per scontati – diritto e dignità di parola e di espressione, per esempio – che però non tutti hanno. Con alcune caratteristiche semplicemente si nasce. Caratteristiche che possono essere privilegi o no, un po’ per caso, perché non è certo merito mio se sono nata con la pelle bianca in un mondo che privilegia le persone con la pelle bianca, così come non è colpa mia se sono donna in un mondo che non mi dà la stessa voce che dà agli uomini. Essere consapevoli dei propri privilegi non significa sentirsi colpevoli per qualcosa che non abbiamo provocato (attenzione!), significa però aprire gli occhi ad un mondo che non è uguale per tutti. Ad una realtà che non si comporta con tutti allo stesso modo. Ad un mondo che, ad oggi, è ancora profondamente ingiusto nei confronti di moltissime minoranze (di genere, di religione, etnia, abilità).
Rendersi consapevoli della disuguaglianza è molto faticoso, perché vuol dire immedesimarsi nella sofferenza dell’altro e soffrire non piace a nessuno. È anche scomodo, perché a volte vuol dire dover scendere dal nostro bellissimo piedistallo di cartapesta per scoprire che in fondo siamo tutti esseri umani, che non ci sono minoranze più “anormali” di altre. Ci sono persone diverse con esigenze diverse. Ma essere consapevoli è indispensabile, se vogliamo che il mondo di domani sia un po’ più giusto. Ma anche per scoprire che forse, sotto a quel piedistallo immaginario, c’è un mondo che vorremmo scoprire anche noi, che è molto più interessante e molto più vivo di tutti i preconcetti che ci eravamo creati.
Fabrizio Acanfora è Neurodivergent Advocate, divulgatore scientifico, scrittore e conferenziere, docente universitario, pianista e clavicembalista. Coordina il Master in Musicoterapia dell’Università di Barcellona, dove insegna anche Disturbi dello Spettro Autistico e Mindfulness. Fa parte del comitato scientifico del Master in Tutor Accademico Specializzato in Didattica Musicale Inclusiva dell’Università LUMSA, dove coordina il modulo di Disability Studies e insegno Neurodiversità. Collabora come esperto di autismo con l’Istituto Catalano di Musicoterapia. Abbiamo parlato di autismo, di inclusione e convivenza, comunicazione e narrazione, falsi miti e consapevolezza.
Da persona che lo vive personalmente, se dovessi spiegare cos’è l’autismo a un bambino, come lo spiegheresti?
Ah, bella domanda. Spiegherei che è un modo differente di vedere il mondo e di conseguenza un modo differente di interagire con esso. Penso che sarebbe la spiegazione più immediata.
Ok, e se io fossi un bambino a questo punto chiederei: ma in che senso differente?
Differente nel senso che il cervello di una persona autistica è organizzato in modo un po’ diverso rispetto alla maggioranza delle persone. Ci sono alcune caratteristiche in particolare – che hanno a che fare, ad esempio, con il modo di percepire il rumore, il suono e la luce, ma anche tutto ciò che avviene dentro di noi (emozioni, sensazioni) – che possono essere differenti rispetto a quello che invece è considerato normale, ovvero quello che che accomuna la maggioranza delle persone. Naturalmente, se percepisci il mondo in modo diverso anche il tuo rapporto con il mondo è diverso, e queste differenze si manifestano in vari modi.
OK, ora però sono un bambino un po’ confuso: a scuola mi hanno insegnato che siamo tutti uguali. Cosa vuol dire che il mio compagno di banco è uguale a me, se però è diverso?
Giusto. Il fatto è che questo “siamo tutti uguali” è un concetto un po’ scivoloso. Siamo tutti uguali perché siamo tutti persone, ma ognuno di noi è diverso dall’altro. Questo credo vada preso sempre in considerazione. Siamo tutti ugualmente degni di essere rispettati come persone, ma se partiamo dal presupposto – sbagliato – che gli altri si comportino esattamente come faremmo noi perché “siamo tutti uguali”, comunicare diventa molto difficile. Ti spiegherei che il tuo compagno di banco, in particolare, interagisce con la realtà in maniera diversa dalla maggior parte degli altri bambini. Forse ti sembra di non capirlo perché non parla, forse non scrive neanche: allora bisognerà scoprire qual è il suo modo di comunicare. Avrà bisogno di più silenzio, di più attenzione, forse per esprimere il suo stato d’animo indicherà un’immagine o farà un disegno. Però vorrei abituarti all’idea che non per forza un modo di comunicare è superiore o inferiore ad un altro. Quello del tuo compagno di banco sarà semplicemente il suo, e scoprirai che anche lui prova le tue stesse emozioni. Solo, le esprime in un modo diverso.
Ecco, adesso – se ho tenuto bene le orecchie aperte – sono un bambino un po’ più consapevole. Il 2 aprile è stata la Giornata mondiale per la consapevolezza sull’autismo, e abbiamo ascoltato molte famiglie, medici e specialisti. La comunità delle persone autistiche, però, ha manifestato una problematicità: sono state invitate davvero poche persone autistiche. Perché una narrazione dall’interno è così importante?
Vorrei chiarire che non si tratta di voler sminuire le altre voci, che sono anzi fondamentali perché offrono sguardi che dall’interno io stesso non potrei avere. La polemica non vuole essere sterile, anzi: l’ambizione è quella di dare spazio ad una narrazione collettiva, che possa portare una consapevolezza completa e totale su un argomento purtroppo davvero poco conosciuto in maniera reale. L’origine del problema è la natura stessa della minoranza: l’autismo riguarda circa il 2% della popolazione. Questo ha inevitabilmente portato alla creazione di uno stereotipo, perché se qualcosa non lo conosco, ma in qualche modo devo però categorizzarlo – il nostro cervello (di tutti) funziona così, naturalmente creerò uno stereotipo. Tra le altre simpatiche cose, lo stereotipo della persona autistica prevede che questa non sia capace di autorappresentarsi, che implica di conseguenza che abbia bisogno di essere rappresentata da altri. Insomma, quella delle minoranze continua ad essere un’inclusione che viene concessa dall’alto, più che riconosciuta da uno sguardo altro. Questo gesto un po’ paternalistico è contemporaneamente l’origine e la conseguenza del problema: se non ti ascolto (e con ascoltare si intende il conferire pari dignità alla tua voce), come posso riconoscerti come mio uguale? E se non ti riconosco come mio uguale, come posso ascoltarti?
Se la comunità delle persone con autismo chiede di non essere rappresentata dal colore blu o da un puzzle con un pezzo mancante, perché bisogna continuare ad utilizzare questa simbologia? Il nostro simbolo è la nostra identità, perché deve sceglierlo qualcun altro?
Un altro problema è quello della scelta del linguaggio, che tende ad identificare la condizione autistica con una condizione di mancanza (il puzzle incompleto, appunto), e soprattutto di sofferenza, tristezza. Si dice “soffrire di autismo”, “essere affetti da autismo”, e si relega la persona (ma magari anche la famiglia) all’accettazione di una vita incompleta, anziché semplicemente diversa. Si rischia di impedire di esplorare tutto quell’universo di possibilità che è il desiderio, il sogno, l’aspirazione e la felicità di una vita – di cui la neurotipicità non è affatto requisito indispensabile.
Di terminologia si è parlato davvero molto. Lo stesso termine “disabilità” si porta dietro una lunga serie di etichette e di stereotipi negativi e limitanti. Per incentivare una cultura dell’uguaglianza basata sulla diversità, non sarebbe forse meglio abolire concetti come “disabile” e “autistico” e parlare piuttosto di abilità diverse e neurodivergenza?
Attenzione. C’è un aspetto sottile di tutta la questione che va rimarcato. Quando si parla di abolire le etichette, da un certo punto di vista sono assolutamente d’accordo: sarebbe importante riuscire a scardinare l’idea di disabilità come funzionamento deficitario, persona inferiore, non capace. Se abolire il concetto di autismo significasse abolire il suo significato di persona a cui manca qualcosa, in questo senso sì, impareremmo a vederci più come pari. Ma la società in cui viviamo a strutturata su misura per persone ‘comuni’ – la maggioranza. Quindi le minoranze hanno bisogno di avere voce, per esprimere e difendere i propri diritti. Che naturalmente, se non vengono ascoltati, non possono esistere.
In questo senso le etichette hanno un’altra funzione che è invece fondamentale, ovvero l’identificazione con un gruppo, l’appartenenza culturale ad una comunità di persone che condividono i tuoi stessi bisogni e molte delle tue stesse caratteristiche. Il riconoscimento di una particolarità comune. E questo è molto importante, sia per l’individuo – che sa di esistere – che a livello politico e sociale – perché dà visibilità ad una minoranza e le permette di avere voce nel dibattito globale.
… E per migliorare la consapevolezza, che ha una ripercussione solo successiva, poi, nella scelta dei termini che usiamo, bisogna necessariamente partire dall’ascolto. Che necessita di due ingredienti fondamentali: la sospensione del giudizio, e la fiducia verso l’altro.
Avrei ancora una domanda. Potresti sfatarci qualche “mito” sull’autismo?
Volentieri!
Innanzitutto, vale il detto per cui “se incontri un autistico, hai incontrato un autistico”. Le persone autistiche sono tutte diverse tra loro, come sono diverse le persone non autistiche.
Ne abbiamo parlato diffusamente, ma fa sempre bene ricordarlo: l’autismo non è una malattia. Questo è importante perché l’idea di “malato” fa subito pensare a cura, e invece l’autismo non è qualcosa che curi, l’autismo è qualcosa che sei. Non è una situazione transitoria, o qualcosa che va aggiustato, è una condizione diversa da quella che vive la maggioranza.
Ma poi è vero che non siete empatici?
No! Questo forse è il più grande falso mito. Io faccio sempre l’esempio della persona italiana che parla con una persona cinese: se parlano ognuno la propria lingua, non riusciranno mai comunicare! Serve un codice condiviso. Il nostro sistema nervoso è strutturato in maniera differente, quindi può essere che io non riesca a guardarti negli occhi mentre parli, ma questo non significa che io non possa immedesimarmi in ciò che provi.
Tra l’altro, questo è proprio un esempio in cui è stato fondamentale il contributo di un ricercatore autistico. Damian Milton ha elaborato una teoria che parla di reciprocità: c’è un problema reciproco nell’interpretazione, non è un problema “degli autistici”. Come noi fatichiamo interpretare le vostre emozioni, anche voi fate fatica a interpretare e nostre.