La risposta delle piazze alla guerra in Ucraina
Di Carlo Giuffrè e Sofia Torlontano
Bologna, 25 febbraio
Di Carlo Giuffrè
L’arcobaleno della pace colora le strade di Bologna.
Circa 10mila i manifestanti in piazza Maggiore per la fiaccolata promossa dal Portico della Pace venerdì 25 febbraio.
Rappresentanti di tutta la comunità bolognese hanno preso parte a gran voce al coro senza confini che si leva contro l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin. “Un atto unilaterale e sconsiderato” come ha dichiarato negli scorsi giorni il presidente di regione Bonaccini.
Le fiaccole che illuminano la piazza ci ricordano delle altre battaglie che non hanno visto Bologna indifferente: “questa comunità si è sempre mobilitata contro ogni forma di sopruso e anche oggi diciamo no all’ invasione dell’Ucraina“, afferma il sindaco Lepore che nei prossimi giorni discuterà un piano di accoglienza per i rifugiati.
È impossibile non pensare con commozione alla fiaccolata di pochi mesi fa per la scarcerazione di Patrick Zaki, che viene ricordata dal palco.
Elly Schlein, vicepresidente della regione Emilia Romagna, nel suo intervento invita ad abbandonare una visione del mondo a blocchi che non deve più appartenenci, ponendo l’attenzione sulla surreale e anacronistica azione criminale alla quale stiamo assistendo.
Uno scenario che rievoca le fasi più calde della guerra fredda. Ecco perché l’arcivescovo Matteo Zuppi riporta un discorso del cardinale Lercaro del 1968 contro la guerra in Vietnam: “noi non siamo neutrali, l’unica parte da scegliere è quella della pace“.
Un messaggio universale che si rivolge a tutti i popoli in conflitto e verso cui l’opinione pubblica deve rivolgere l’attenzione.
La canzone che esprimeva vicinanza al Vietnam invaso dalle forze americane, viene oggi intonata per ricordarci che anche in Ucraina, così come nel resto del mondo, “C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones“. La canta Gianni Morandi, anch’egli intervenuto alla manifestazione rivolgendo così il proprio sostegno al popolo ucraino.
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Roma, 26 febbraio
di Sofia Torlontano
“Cosa vuol dire per voi giovani scendere in piazza, in una situazione così?” Sono alla manifestazione a Roma, in diretta sui canali di MicroMega Rivista. Su due piedi, alla domanda di Daniele Nalbone, non so rispondere.
Fortunatamente, un secondo dopo, Valerio Nicolosi, direttamente da Kiev, si è unito al collegamento.
Valerio, giornalista, regista e fotoreporter, è ormai una figura conosciuta e stimata all’interno della nostra redazione, a livello professionale ma anche umano, per cui la prima cosa che mi è venuta da chiedergli è stata “Come ci si sente, come stai?”.
La sua risposta mi è sembrata abbastanza commossa, guardando Piazza Santi Apostoli piena e stracolma di gente. “La guerra fa schifo, non c’è romanticismo, non c’è niente di bello. Sono i civili a rimetterci, fermiamola subito! Grazie a chi scende in piazza e chi si sta schierando contro tutto questo.”
Nel frattempo, dallo schermo del mio cellulare cercavo di far passare tutto il calore che si percepiva in quella piazza, i colori delle bandiere delle 150 associazioni presenti, i cartelli più o meno espliciti di singoli cittadini che si sono recati lì per manifestare.
Un sacco di giovani, tanti giovani.
“Cosa vuol dire per voi giovani scendere in piazza, in una situazione così?“
Ecco, ora che non sono più su due piedi, posso dire cosa vuol dire per me scendere in piazza. Ci sono due motivazioni principali, una egoistica e una più solidale.
Parto dalla prima, che sicuramente piace di più ed è quella che è condivisa dalla maggior parte delle persone che erano lì: oggi protestavamo per gli ucraini, che si trovano nel cuore del conflitto, senza nessuna colpa, perdendo da un momento all’altro città, case e averi.
Manifestavamo per i Russi, che appena accennano un piccolo segno di dissenso, vengono arrestati.
Manifestavamo per la pace, la giustizia sociale, il dialogo e l’accoglienza.
Poi c’è il lato egoistico, una specie di meccanismo psicologico che mi sembra che tutti stiano dando un po’ per scontato in questo momento.
A 23 anni, all’uscita di una pandemia che ha compromesso tutti i miei piani per il futuro, quando finalmente si riaccende la speranza che tutto stia andando per il meglio, scoppia una guerra a qualche migliaio di chilometro da dove vivo. I notiziari, i media, vedono questo attacco come l’inizio di una cosa più grossa, una possibile terza guerra mondiale.
Cosa vuol dire per voi giovani scendere in piazza, in una situazione così?
Vuol dire non cadere in un nuovo oblio, non sentirsi soli, non sentirsi inutili.
Manifestare mi fa sentire meno impotente di fronte alle immagini delle bombe, dei carri armati e dei morti. Mi fa sentire che posso giocare una parte, posso dare una mano, con la mia voce e con la mia presenza tra migliaia di persone, che non sto ferma di fronte alla guerra.
Mi fa sentire che non sta succedendo davvero, che si può fermare tutto questo, che la pace vincerà e che torneremo ad avere una vita bella, felice e senza guerre e senza pandemia.
Mi fa disconnettere per un secondo dalle immagini che nessuno vorrebbe vedere, dalle previsioni pessimistiche dei giornali, di chi sta raccontando tutto questo come una partita a Risiko.
Cosa vuol dire per voi giovani scendere in piazza, in una situazione così?