La giustizia deve essere bilaterale
Le carceri italiane sono, come ben risaputo, sovrappopolate. Eppure, il tasso di criminalità ha oscillazioni ben poco significative. Ogni giorno ognuno di noi esulta perché quel tal dei tali che ha commesso tale crimine riceve una determinata pena. Esultiamo perché crediamo di sentirci più al sicuro confinando tutto ciò che crea scalpore o paura in quattro mura fredde. Spesso accade però il contrario: casi che ci si aspetterebbe di trovare in prima pagina su tutti i giornali ricevono pene di gran lunga inferiori al pensiero comune. È l’altra faccia della medaglia della “giustizia esemplare”, come scrisse una volta un gran giornalista nel suo Buongiorno. A parità di crimine, il criminale con più pubblicità mediatica ottiene pene superiori, condannato sia daipolitici chedalle chiacchiere da bar.
La giustizia è un argomento complesso che di solito riguarda tre elementi: l’offensore, l’offeso, e il giudice.
Proviamo a metterci nei panni della parte lesa, di chi subisce il crimine e cerca di ottenere giustizia. Ponendo come dato di fatto la natura “cattiva” del crimine possiamo ipotizzare che l’offeso non solo voglia essere risarcito (moralmente, in primis, e poi economicamente o per altri mezzi a seconda del caso), ma desideri che il crimine commesso, di cui ha vissuto i danni in prima persona, non si reiteri più. Quello che la parte lesa sa è questo: l’offensore ha commesso un crimine contro di me, io ho subito danni, e non voglio che né io né nessun altro subisca lo stesso trattamento. Dunque, confinando la persona in questione in carcere, in teoria il problema viene risolto.
Com’è possibile, allora, che crimini dalla stessa natura accadano ancora e ancora, sia da parte di persone estranee sia da parte dell’offensore precedente, scontata la sua pena e riottenuta la propria libertà?
Ora la parte dell’offensore. Chi offende o è conscio di aver commesso un crimine, e di conseguenza una cosa considerata sbagliata (ma l’ha commessa lo stesso per convenienza, oppure per mancato timore di essere beccato), oppure non ne è conscio e dunque non capisce perché debba essere punito. Alla radice di entrambi i casi si può ipotizzare di trovare, con diverse intensità, la mancanza di consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni. Ma non si può pretendere che ognuno comprenda da sé i propri errori, né che ognuno di noi agisca con l’obiettivo di favorire in ogni situazione prima gli altri.
Un classico: rubo la mela perché non ho alternative, sto morendo di fame e non trovo lavoro (sì, è la Rapsodia in Blu di Fantasia 2000). Chi è il giudice per confinare in carcere un morto di fame, o una persona che non capisce di aver sbagliato?
Nessuno in questi casi compie mai un’azione senza averne un motivo. Qualsiasi tipo di azione è effettuata in base a un certo tipo di vissuto: una necessità, una determinata educazione, un certo sfondo sociale, un obbligo, un dovere. Perché ho bisogno di rubare la mela? Per non morire di fame. Perché muoio di fame? Perché non ho un lavoro. Sono consapevole che rubare sia sbagliato? Sì. Sconterò la pena per aver rubato la mela? Sì. Quando e se troverò un lavoro, continuerò a rubare? No.
Sembra un ragionamento logico. Il giudice mi condanna perché rubare è sbagliato, mi spedisce in un luogo dove vivo poco meglio o poco peggio rispetto al “fuori”, e quando esco ho ancora fame e vedo un’altra mela. E ricomincio. Anzi, ricomincio facendo più attenzione, perché ho imparato che in prigione non sono al sicuro: da lì non posso abbracciare la mia famiglia e i miei amici, da lì vedo solo un ottavo del cielo. Questo accade indipendentemente dal fatto che io abbia capito o meno il mio errore.
Cambiamo un po’ le circostanze: non trovo un lavoro, ma lo Stato mi dà il minimo sindacale per sopravvivere, e poi trovo un lavoro. Peggioriamole: non ho un lavoro, lo Stato mi tiene in vita e avrei la possibilità di lavorare, ma quella mela così rossa la voglio proprio assaggiare. Mi portano in un luogo in cui ogni giorno mi istruiscono e mi spiegano sia perché rubare è sbagliato, sia come trovare un lavoro, sia perché lavorare per comprarmi la mela non danneggia né me né il negozio di ortofrutta. Funziona? Il problema è che certi crimini hanno un peso maggiore del furto di una mela. Magari picchio il mio coniuge, o faccio favori in cambio di denaro, o rapisco persone per la mafia, o partecipo al traffico esseri umani.
Se come società (e, dunque, come Stato) costruissimo un ambiente in cui non esistessero motivi pratici per commettere crimini, in cui vengono spiegati gli svantaggi del commettere atti facinorosi e i vantaggi del comportarsi “bene”, in cui quando un crimine accade la vittima viene salvaguardata e tenuta lontana dall’offensore, mentre questo aiutato a ricostruire la convivenza con le altre persone nella società… ecco, credo che in quella società utopica vivremmo molto meglio.
Ma come ogni descrizione di società ideale non manca il raffronto con la dura realtà di tutti i giorni: gridiamo allo scandalo, addoloriamo le vittime ancora di più, ignoriamo le radici dei nostri problemi additandone solo la sommità, ostracizziamo le “pecore nere” ma non ci accorgiamo che ognuno può diventare un lupo. Anche uno qualsiasi di noi, con il giusto sfondo socio-culturale.
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