Fashion Revolution week 2020: perché è importante partecipare
Vi siete mai chiesti, presi da quel senso di gioia mentre vi apprestate a comprare l’ennesima felpa, maglietta o paio di pantaloni come questo faccia a costare così poco?
Voglio dire: un abito è fatto di tessuto e sia che questo sia sintetico o naturale, prima di essere tagliato, cucito ed eventualmente tinto o decorato con stampe, imballato e spedito deve essere prodotto, filato e trasformato in una bobbina di stoffa.
La risposta è che quel capo appartiene ad una catena di fast fashion, notoriamente conosciute per i loro basso costo per il consumatore a danno non solo dell’ambiente ma anche dei lavoratori stessi.
Ed è proprio in una di queste fabbriche, la quale realizzava capi d’abbigliamento per i suddetti marchi che 1113 lavoratori persero la vita sotto le macerie a seguito del crollo dell’edificio stesso a Dhaka, in Bangladesh, il 24 aprile del 2013.
Da quel momento in poi, ogni anno durante la settimana di aprile in cui ricade questa data, il movimento Fashion Revolution torna a chiedere a tutto il settore della moda maggiore trasparenza nei processi di produzione e un’adeguata tutela dei lavoratori e a noi consumatori una maggiore consapevolezza di quello che si va ad acquistare.
Ogni anno durante la Fashion Revolution week in ogni paese si tengono incontri e seminari atti a sensibilizzare le persone sui danni che la moda crea al pianeta e alle persone oppure a insegnare come riparare o riutilizzare i propri abiti, o ancora nelle varie città si possono svolgere degli swap party, incontri dove ognuno porta un capo d’abbigliamento integro ma che non vogliamo più per scambiarlo con i partecipanti.
Purtroppo, a causa dell’emergenza Covid-19, molte di queste iniziative come gli swap party sono state annullate mentre altre ancora si sono spostate online, ciò che invece rimane invariato rispetto agli scorsi anni, e che tutti noi possiamo tranquillamente fare, è partecipare alla campagna social “ Who made my clothes?”.
Se siete semplici cittadini, potete scegliere tra:
- inviare una mail (trovate il template sul sito) da indirizzare alla casa di moda che preferite. Ovviamente, i principali destinatari della campagna restano le catene di fast fashion – per intenderci: H&M, Zara, Breshka etc.- ma nulla vi vieta di inviarla anche a piccole realtà. Dopotutto Fashion Revolution chiede proprio questo: una filiera produttiva più trasparente, rispettosa dell’ambiente e delle persone. A tutti.
- Fare un piccolo Tweet
- Partecipare tramite Facebook o Instagram: per farlo, basta scattarsi una foto con un capo di abbigliamento qualsiasi indossato al contrario e con l’etichetta presente e ben in vista, farsi una foto, postarla sui social taggando il brand di quel capo e il movimento Fashion Revolution, non dimenticandosi di utilizzare l’hastag #whomademyclothes.
Anche se siete un’azienda e possedete un brand di moda, siete dei produttori, dei grossisti o dei rivenditori al dettaglio potete fare la vostra parte: vi basterà condividere la vostra filiera produttiva, il processo che c’è dietro al prodotto finale, per aiutare e dare il buon esempio su come deve essere una filiera produttiva chiara e trasparente.
Basta fare una piccola ricerca per capire quanto sia grave il problema: diversi studi, associazioni e documentari ( tra cui il famosissimo “The True Cost”) hanno dimostrato come l’industria della moda sia una delle più inquinanti al modo, praticamente dannosa quanto quella petrolifera o quella legata agli allevamenti intensivi.
La produzione di capi a basso costo comporta un consumo di acqua e risorse che se rapportate al ciclo di vita che questi capi hanno, solitamente molto breve, diventa particolarmente evidente quanto ciò sia dannoso per il pianeta; senza contare poi che un capo per la maggior parte delle volte va tinto e spedito all’altro capo del mondo, con conseguente inquinamento atmosferico e delle falde acquifere.
Se guardiamo dal punto di vista umano invece, il danno continua a sussistere: i salari sono molto più bassi rispetto a quanto previsto dalla legge del paese in cui le fabbriche si trovano con turni di lavoro lunghi e massacranti e tra i lavoratori ci sono anche minori. Anche se le dinamiche cambiano da paese a paese la situazione resta comunque preoccupante.
Benché oggigiorno lo shopping è considerato da molti terapeutico, e per tanti altri è sicuramente bello e soddisfacente ampliare il proprio guardaroba spedendo poco, dovremmo sempre tenere in considerazione quanto le nostre azioni, i nostri acquisti in questo caso, possano essere dannosi ambiente e persone.
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