Diritto alla verità
Il 24 marzo è la Giornata internazionale per il diritto alla verità sulle gravi violazioni dei diritti umani e per la dignità delle vittime. È stata istituita nel 2010 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che ha scelto questa data perché si tratta del giorno in cui, nel 1980, l’arcivescovo di San Salvador Óscar Romero venne ucciso mentre stava celebrando la messa nella cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza.
Perché è stato necessario istituire una giornata dedicata al diritto alla verità?
Stando a quanto si legge sul sito delle Nazioni Unite, il diritto alla verità è spesso invocato quando si verificano gravi violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario. Solitamente sono i parenti delle vittime di esecuzioni sommarie, di sparizioni forzate o di torture a rivendicare il diritto di sapere cosa sia successo alle vittime. Lo scopo di questa giornata è triplice: si vuole anzitutto onorare la memoria delle vittime di gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani e promuovere l’importanza del diritto alla verità e alla giustizia, in secondo luogo si vuole rendere omaggio a quanti hanno dedicato le loro vite o perso la vita per promuovere e proteggere i diritti umani e infine si vuole riconoscere l’importante lavoro dell’arcivescovo Óscar Romero. Óscar Romero fu ucciso nel 1980, solo 3 anni dopo la sua nomina ad arcivescovo di San Salvador. L’omicida di Romero era un sicario appartenente ai cosiddetti “squadroni della morte”, gruppi di paramilitari di estrema destra vicini al governo. Il sicario obbediva al mandato di Roberto D’Aubuisson, leader del partito nazionalista conservatore chiamato Alleanza Repubblicana Nazionalista (ARENA).
Cosa si intende per diritto alla verità?
Il diritto alla verità riconosce la legittimità della volontà di conoscere la “piena e completa verità” relativa agli eventi accaduti, comprese le informazioni riguardo chi vi ha partecipato, le circostanze in cui le violazioni hanno avuto luogo e le ragioni che hanno spinto a compiere le azioni di cui si parla. Si tratta quindi di un’indagine volta alla ricostruzione dell’accaduto anche al fine di ottenere giustizia per le vittime di tali soprusi. Proprio la ricostruzione degli eventi spesso è ostacolata dalle azioni di depistaggio messe in atto dai singoli o dalle istituzioni che si macchiano di crimini contro i diritti umani, compromettendo il percorso verso l’ottenimento della giustizia. Si tratta quindi di una sorta di lavoro d’inchiesta, per svolgere il quale i parenti delle vittime si rivolgono alle istituzioni del proprio Paese e alle istituzioni sovranazionali, come le Nazioni Unite.
Grazie a uno studio condotto nel 2006 dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), le Nazioni Unite hanno potuto stabilire che il diritto alla verità sulle gravi violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario è un diritto inalienabile dell’individuo, per cui lo Stato ha il dovere e l’obbligo di proteggere e garantire i diritti umani per condurre investigazioni efficaci e per garantire un rimedio o dei risarcimenti pari modo efficaci. In una relazione del 2009 dell’UNHCR sono state anche individuate le pratiche migliori per far sì che ci sia un’effettiva applicazione di questo diritto. Si tratta di prassi relative all’accesso agli archivi e ai documenti riguardanti le gravi violazioni dei diritti umani e ai programmi di protezione dei testimoni e altre persone coinvolte nei processi o nelle indagini.
Che rapporto c’è tra diritto alla verità e libertà di stampa?
Nei casi di cronaca riguardanti la violazione dei diritti umani o del diritto umanitario la stampa, insieme alle campagne divulgative di altro genere, svolge un ruolo fondamentale. Grazie anche ai social media, l’attività giornalistica e di informazione consente di mettere al corrente più persone possibile riguardo quanto accade in determinate zone del mondo o riguardo un dato fatto di cronaca. Per questo, la limitazione di questa libertà rappresenta un pericolo che ricade sul diritto alla verità sulle gravi violazioni dei diritti umani e per la dignità delle vittime. Nei Paesi in cui il livello di libertà di stampa è minore a causa della censura o del controllo da parte di un governo autoritario è difficile – se non impossibile – avere accesso alle informazioni sulle violazioni dei diritti umani.
Reporter senza frontiere (Reporters sans frontières, RSF) pubblica ogni anno, dal 2002, l’Indice mondiale della libertà di stampa, una classifica di 180 Paesi ordinati in base al maggiore o minore livello di libertà di cui dispongono i media e i singoli giornalisti in quel Paese. Vengono presi in considerazione fattori quali il pluralismo, l’indipendenza dei media, la qualità del quadro legislativo e la sicurezza dei giornalisti. L’indice è costruito mettendo in relazione le risposte dei professionisti dei media a un questionario ideato da RSF ai dati quantitativi sugli abusi e sugli atti di violenza ai danni dei giornalisti verificatisi durante il periodo preso in esame. Insieme all’Indice viene pubblicata anche la mappa della libertà di stampa, in cui ogni Paese è contrassegnato da un colore che indica il maggiore o minore livello di problematicità della situazione della libertà di stampa.
La posizione dell’Italia
Nell’Indice relativo all’anno 2021, l’Italia occupa il 41° posto, mantenendo la propria posizione inalterata rispetto all’anno precedente. Rispetto al 2019 è salita di due posizioni. Secondo le informazioni raccolte da RSF, circa 20 giornalisti italiani sono sotto la protezione della polizia a causa di minacce di morte o intimidazioni rivolte loro soprattutto dalle organizzazioni criminali e mafiose. La pandemia ha avuto un impatto significativo sul lavoro dei giornalisti italiani, rendendolo sicuramente più difficile, anche se i media hanno continuato a lavorare liberamente. RSF cita il decreto Cura Italia del 17 marzo 2020, in base al quale alle agenzie statali è stato ordinato di interrompere il trattamento delle richieste di accesso ai documenti a causa della mancanza di personale che potesse gestire tali richieste o a causa del pericolo di contagio. Questo ha reso l’accesso ai dati più difficile per tutti i media nazionali. Secondo RSF, però, il pericolo più grave per i giornalisti durante la pandemia è stato rappresentato dai negazionisti del coronavirus, descritti come “una schiera eterogenea che include guerriglieri urbani, attivisti “no – mask”, neofascisti, teppisti, “anarchici” e infiltrati della criminalità organizzata” che non di rado hanno aggredito fisicamente i giornalisti, in particolare quelli impegnati nel documentare l’ondata di proteste di ottobre e novembre 2020. Questi episodi si sono protratti per tutto il corso del 2021: ricordiamo, per esempio, gli attacchi subiti dai giornalisti Francesco Giovannetti e Selvaggia Lucarelli, entrambi aggrediti durante le manifestazioni “no green pass”. Impossibile non citare anche l’assalto alla sede della CGIL a Roma, avvenuto lo scorso 9 ottobre durante una manifestazione contro il Green Pass. Tra i manifestanti erano infiltrati esponenti di partiti di estrema destra e neofascisti che avrebbero guidato l’ondata di violenze ampiamente documentate dai giornalisti lì presenti. Il negazionismo riguardante il coronavirus rappresenta un problema non solo perché spesso sfocia nella violenza ai danni dei giornalisti che documentano le manifestazioni, ma anche perché i negazionisti contribuiscono alla diffusione di fake news sui vaccini o sul virus stesso. Per questo un lavoro estremamente importante svolto da alcuni media italiani è stato quello di impegnarsi nel contrasto di tali notizie infondate o allarmiste al fine di fornire dati e analisi veritiere riguardo la pandemia e il coronavirus.
Essendo un vero e proprio punto di riferimento per quanto riguarda l’indagine sulla libertà di stampa a livello mondiale, l’indice è utilizzato anche da organizzazioni internazionali, tra cui le Nazioni Unite. A partire dal 2001, RSF pubblica anche l’Indice dei predatori della libertà di stampa, tra i quali figurano anche Alexander Lukashenko, Presidente della Bielorussia e Vladimir Putin, Presidente della Federazione Russa. Russia e Bielorussia sono rispettivamente 150° e 158° nell’Indice mondiale della libertà di stampa dell’anno 2021.
Diritto alla verità in Italia: “Verità per Giulio Regeni”
A partire dal 2016, gli striscioni “Verità per Giulio Regeni” sono comparsi nella maggior parte delle piazze italiane e sono tuttora appesi ai palazzi di comuni e istituzioni. La campagna lanciata nel 2016 da Amnesty International, il cui simbolo è proprio lo striscione giallo, ha lo scopo di non permettere che la morte del ricercatore italiano venga dimenticata e soprattutto di ottenere verità e giustizia riguardo il suo omicidio. Sul sito di Amnesty International si legge che:
“Qualsiasi esito distante da una verità accertata e riconosciuta in modo indipendente, da raggiungere anche col prezioso contributo delle donne e degli uomini che in Egitto provano ancora a occuparsi di diritti umani, nonostante la forte repressione cui sono sottoposti, dev’essere respinto”.
Amnesty ha iniziato anche una considerevole campagna social alla quale si può aderire utilizzando l’hashtag #veritàpergiulioregeni.
La strada verso l’ottenimento della verità e della giustizia è resa più difficile dai tentativi delle autorità egiziane di depistare le indagini, cancellando le prove, dichiarando il falso o non collaborando con le autorità italiane. Le indagini e i rapporti tra Italia ed Egitto sono resi complicati anche dal regime dittatoriale di Abdel Fattah al-Sisi, il quale compare anche nell’Indice dei predatori della libertà di stampa emanato da RSF. Si è ancora lontani dall’ottenimento della giustizia sul caso Regeni: a dicembre 2020 la procura della Repubblica di Roma ha chiuso le indagini preliminari e lo scorso maggio sono stati rinviati a giudizio i quattro ufficiali della National Security Agency egiziana accusati di essere coinvolti nell’omicidio Regeni. Gli ufficiali indagati risultano irreperibili perché la magistratura egiziana si è rifiutata di fornire gli indirizzi di residenza.
Nella Risoluzione del Parlamento europeo del 10 marzo 2016 sull’Egitto, in particolare il caso di Giulio Regeni il Parlamento europeo aveva condannato fermamente la tortura e l’assassinio in circostanze sospette di Giulio Regeni ed esortato le autorità egiziane a fornire alle autorità italiane tutte le informazioni e i documenti necessari per consentire lo svolgimento delle indagini. Inoltre è stato sottolineato dal Parlamento europeo che il caso di Giulio Regeni non è affatto isolato e che «si colloca in un contesto di torture, morti in carcere e sparizioni forzate avvenute in tutto l’Egitto negli ultimi anni». L’operato delle autorità egiziane nei confronti di Regeni e di quanti hanno subito torture e soprusi viola l’articolo 2 dell’Accordo di associazione UE-Egitto, secondo cui le relazioni tra l’Unione europea e l’Egitto devono essere basate sul rispetto dei principi democratici e dei diritti umani fondamentali definiti nella Dichiarazione universale dei diritti umani.