La dialettica della morte in Occidente e in Oriente
La morte è un fatto inevitabile della nostra esistenza come esseri umani, ma non per tutti indica la fine della vita: indica un punto di transizione, in cui si abbandona il corpo per raggiungere un altro modo di essere. In tutte le culture esiste una rappresentazione di ciò che succede al corpo nel momento in cui si spenge; nello specifico, noi europei siamo soliti pensare alla vita e alla morte in una dimensione oppositiva e complementare, mentre in Oriente, dove alcune società come quella indiana sono più olistiche della nostra, non si ragiona procedendo per esclusione e categorizzazione dei fenomeni, ma cercando di comprendere il modo in cui questi stessi si trovano in un rapporto di reciproca dipendenza che li rende parte di un sistema complesso.
I buddhisti praticanti sono consapevoli dell’eternità della vita, perché la loro idea di esistenza non è legata all’esperienza corporea sulla terra ma alla consapevolezza dell’esistenza di un’energia vitale, di un soffio vitale.
Gli indiani, per esempio, con la loro mitologia basata su un continuo ciclo di distruzione e creazione, dimostrano come la morte faccia semplicemente parte del processo di creazione e viceversa.
Per i nostri modelli culturali, influenzati dalla megamacchina tecnico-economica dell’industrializzazione post-moderna, abbiamo introiettato l’idea di un’esistenza in termini produttivi e positivisti con la conseguenza che tutto risulta una continua ricerca di raggiungimento al livello superiore. Tendiamo a vivere un’esistenza molto caotica, corriamo nelle grandi città considerando la vita troppo breve, inseguiamo il progresso. Il conseguimento perenne dei nostri obiettivi socio-economici ci ha portato a pensare che la vita sia una corsa e ci siamo allontanati dal contatto con le logiche del mondo naturale, logiche rispettate fino a non molto tempo fa dalle culture che definiamo primitive.
Solo che nel frattempo l’universo non sta andando da nessuna parte, la natura lo sa bene questo: per questo rispetta il succedersi delle varie stagioni e gli alberi non corrono per fiorire. La vita non è un viaggio per raggiungere una qualche destinazione, non c’è alcuna meta da raggiungere.
La vita e la morte si trovano per noi europei in un rapporto dicotomico che non permette di vedere influenze di una sfera sull’altra. Consideriamo questo evento come una conseguenza biologica della vita sotto parametri medico-biologici, e poi affrontiamo il dolore della perdita, che è un dolore incentrato sulla difficoltà dell’accettazione della non-presenza del defunto. Un principale tratto distintivo fra la società moderna e la società tradizionale è la perdita del rito di iniziazione della morte, leggiamo questo evento come il termine stesso dell’essere, non un momento di transizione. A tal proposito, l’antropologo inglese Gorer scrisse che la morte è consumata in Europa quasi di nascosto, in privato, come fosse da non vedere. Ci crea imbarazzo perché ci appare come la fine della produttività.
In Asia, nello specifico secondo il buddhismo e molte minori religioni orientali, questo avvenimento viene invece letto come un passaggio simbolico della nostra anima, che si sgancia dal corpo materiale e gode a questo punto di due possibilità: andare in Paradiso, e quindi conquistare la possibilità di reincarnarsi e tornare sulla Terra, oppure andare all’inferno, che equivale a rimanere incastrati in un limbo di non-soddisfazione dello spirito.
Pchum Ben: il rituale khmer che mette in contatto due dimensioni della realtà
Pchum Ben (បុណ្យភ្ជុំបិណ្) è una cerimonia di trasferimento del merito che avviene durante la stagione del raccolto in Cambogia, dopo il ritiro monastico annuale. Questa celebrazione ha una durata di 15 giorni ed è osservata dalla maggior parte della popolazione khmer buddhista.
I primi 14 giorni della cerimonia sono chiamati BEN MUAY (che significa giorno primo-muay del Ben), BEN BPII (giorno secondo), BEN BEY (giorno terzo) e così proseguendo fino al quindicesimo giorno che prende il nome di T’NGAI JONG-GRAOY o T’NGAI PCHUM BEN, rispettivamente il grande giorno odierno e il giorno di Pchum Ben.
Tutti i giorni, ad esclusione dell’ultimo, ogni credente si reca alla pagoda alle 4 del mattino, portando nel palmo delle mani delle porzioni di riso chiamate Baay Ben (sticky rice, acqua di cocco e semi di sesamo).
I Baay Ben sono esclusivamente per gli spiriti e non per gli uomini e l’atto di offrire questo cibo ai fantasmi è definito BOH-BAAY-BEN, un atto rituale che si svolge durante la notte nei campi intorno alle pagode.
A partire dal tramonto del giorno precedente, i monaci intonano i loro canti, poi tutti i credenti camminano per tre volte intorno alla pagoda lanciando il cibo sulla terra circostante, rendendo omaggio ai parenti deceduti che giungeranno affamati.
Si può raggiungere fino alla settima generazione antecedente alla propria: tutti questi antenati si presenteranno in cerca di nutrimento e si aspettano di trovare qualcuno ad attenderli.
Un aspetto notevole di questo rito risiede nel fatto che ha lo scopo di rinsaldare il senso di appartenenza alla comunità, motivazione per cui le offerte sono pensate per tutti gli spiriti, e non esclusivamente per i propri. Si pensa infatti in termini collettivi. Secondo le attuali credenze, nel caso in cui lo spirito non trovi la propria famiglia, potrebbero scagliarsi eventi drammatici sul nucleo.
È fondamentale che le offerte di cibo siano concluse prima dell’alba perché con l’arrivo delle luci i fantasmi se ne andranno e non potranno più presentarsi nelle pagode. All’insorgere dell’alba, i cambogiani si recano nuovamente alla pagoda con cibo e bevande, questa volta per loro stessi e i monaci. È inoltre tradizione visitare almeno sette differenti pagode durante questo rituale, come modo per permettere a quanti più spiriti possibile di soddisfare la loro fame.
Secondo le prospettive buddiste, durante questo periodo le porte dell’inferno sono aperte permettendo agli spiriti di varcarle e raggiungere la terra, per questo i monaci intonano costantemente i sutta in Pali (testi canonici buddhisti), senza dormire. Alle anime viene dunque data la possibilità di lasciare per breve tempo l’inferno, oppure di terminare il loro processo di purgazione.
È importante però sapere che gli spiriti che verranno in cerca di cibo sono quelli che non hanno avuto ancora la possibilità di reincarnarsi. Questo tipo di spirito viene chiamato dalla cultura khmer Pret, un termine che può indicare l’energia di una persona che ha condotto una vita poco rispettabile oppure che è morta violentemente, per strada, e quindi senza la propria famiglia vicino. I Pret rimangono incastrati all’Inferno fino a quando, durante i giorni di Pchum Ben, le porte vengono finalmente aperte e possono tornare nel mondo materiale alla ricerca di sollievo.
Secondo l’antropologo Ang Choulean, ai morti è stato concesso un limite di tempo e spazio circoscritto, e quel momento è forse il più potente spiritualmente nella cultura khmer: un periodo di tempo caratterizzato da un’intensa meditazione spirituale tra i monaci durante le ultime settimane del ritiro della pioggia, nello spazio santificato del wat (tempio). In questo senso possiamo dire che la morte del singolo ha un’influenza sulla vita degli individui del gruppo. Gli atti rituali hanno infatti spesso la funzione di rivitalizzare il senso di appartenenza alla comunità, e in questo caso lo scopo è quello di armonizzare un arcaico bisogno di presenza e collettività tra le anime.
L’esperienza di Dara
Dara, un ragazzo di 37 anni che insegna khmer in lingua inglese, mi ha raccontato che le persone che vivono nelle città come Phnom Penh, durante questi giorni si recano nei villaggi dei loro antenati. È credenza comune che nelle città caotiche, come Siem Reap o la capitale, non sia possibile entrare in contatto con gli spiriti. Per questo, e per riconnettersi ai luoghi originari della propria famiglia, tutti si recano nei piccoli villaggi della Cambogia rurale. Si crede che nella foresta sia possibile imbattersi in spiriti soprattutto quando non li si prega in maniera manifesta, ma se si dice di non aver nessuna richiesta esplicita per loro. Per esempio, Dara ha compiuto più volte l’azione di andare nella foresta e dire ‘Io non credo che loro verranno’ per poter avere contatto con un suo antenato.
La richiesta esplicita non viene accolta ma invece è usanza offrire cibo anche quotidianamente; per esempio, a ogni pasto si lascia un po’ di riso per gli spiriti. La necessità di riequilibrare le energie di questi antenati deceduti porta le famiglie, anche se povere, a rinunciare a una porzione della loro risorsa principale. Questa scelta è singolare perché il riso è l’elemento principe di sostentamento per i contadini delle campagne cambogiane, fondamentale per la loro sussistenza, e forse proprio per questa importanza decidono di donare un po’ di questa risorsa materiale agli spiriti inquieti. Questo atto è connesso all’idea che un’anima affamata possa cibarsi con qualcosa di reale, e godere di quell’atto come modo per sollevarsi dalle sofferenze.
Alcuni antropologi leggerebbero questo dato come una prova di un pensiero tradizionale primitivo che si discosta dai sistemi cognitivi razionali, infatti è possibile notare una mancanza del principio di causalità nella pratica rituale descritta. Nell’ottica tradizionale buddhista però, si ha l’evidenza del fatto che il proprio atto abbia un effetto positivo nella mancanza di ripercussioni negative a livello socio-economico nella famiglia.
I cambogiani credono ai fantasmi perché li percepiscono, ad esempio sentono l’odore della morte che caratterizzava i corpi dei defunti mentre erano ancora in casa. Dara mi ha raccontato di essere stato perfettamente in grado di capire che suo nonno fosse morto perché lo spirito di quest’ultimo si è materializzato in camera sua attraverso il suo odore. Inoltre, sono molto frequenti racconti di persone che dicono di ricevere manifestazioni dei propri antenati deceduti nei sogni; il sonno è ritenuto una dimensione percettiva amplificata che permette un contatto tramite immagini fra morti e vivi.
Il distacco dal corpo
In Cambogia, quando un familiare muore in casa, il corpo è tenuto per sette giorni dalla famiglia, perché questo è il tempo che lo spirito impiega per rendersi conto che si è separato dal corpo. Inizialmente lo spirito si presenterà a casa chiedendosi per quale motivo nessuno può vederlo, senza comprendere perché i familiari non possono ascoltarlo. Impiega al massimo sette giorni per rendersi conto di essere un’entità separata dal corpo, e dopo questa coscienza in genere non vuole allontanarsi dalla famiglia ma non ha scelta, entro questo arco temporale deve andare in Paradiso (quindi tornare sulla terra sotto forma di una nuova vita), oppure all’Inferno (e diventare uno spirito vagante). Ritroviamo nella cultura khmer una tendenza tipica di altre comunità del Sud-est asiatico, come per esempio il Borneo, ovvero la tradizione di eseguire due funerali, uno immediatamente successivo alla morte, e uno qualche tempo dopo. Questa pratica rituale è stata analizzata dall’antropologo Robert Hertz all’interno del suo lavoro Studio sulla rappresentazione collettiva della morte, nel quale ha definito questi due riti funebri rispettivamente come prime e seconde esequie. La motivazione che sta alla base di questa scelta dipende dal fatto che il primo funerale ha il ruolo di elaborare il lutto, mentre le seconde esequie costituiscono il momento in cui l’anima del defunto si distacca dal mondo dei vivi, ragione per cui la popolazione khmer attende almeno sette giorni per il secondo rito di passaggio.