Industria tessile: agricoltori e biodiversità
La moda, ossia: i vestiti che compriamo e che indossiamo. Non si tratta soltanto di una semplice manifestazione di gusto personale, espressione di stile; e nemmeno soltanto di questioni di autostima, modelli di riferimento estetici più o meno performativi. Dietro alle numerose vetrine che affollano le strade delle nostre città si cela, invece, anche un intricato ciclo produttivo, lungo e dispendioso, che prevede una laboriosa serie di fasi. Niente, infatti, nemmeno i vestiti, nasce magicamente dal vuoto. Servono diversi passaggi: ottenere le materie prime, lavorarle, trasferirle nelle fabbriche in cui verranno lavorate, ideare e confezionare, spedire, e vendere. Con tutti i processi relazionati: la manodopera, il personale, l’invenzione dei macchinari eccetera eccetera. Il ‘ciclo produttivo’ di un prodotto è l’insieme dei processi che fanno parte della sua realizzazione.
In questo breve video divulgativo viene raccontato il ciclo produttivo di una maglietta
Generalizzando, si possono considerare tre fasi nella produzione di un indumento: 1. la produzione della materia prima ; 2. la realizzazione dei prodotti nelle fabbriche; e 3. la vendita.
L’impatto ambientale dell’industria tessile
L’industria tessile ha un impatto ambientale piuttosto significativo, dovuto principalmente ad alcuni fattori:
1. L’utilizzo intensivo di risorse naturali come acqua, energia e terreno – che servono per la produzione delle materie prime
2. L’inquinamento dell’acqua e dell’aria causato dai processi di produzione, in cui è inclusa l’emissione di sostanze chimiche dannose.
3. La produzione di una vasta quantità di rifiuti – che avviene durante tutto il ciclo di vita dei prodotti tessili, dalla loro produzione al loro lavaggio, e infine al loro smaltimento.
4. Le emissioni di gas serra, che sono legate sia alla produzione tessile che alla gestione dei rifiuti.
L’AEA stima che la fase di produzione, in particolare, rappresenti circa l’80% dell’impatto complessivo dei prodotti tessili sul cambiamento climatico, mentre la distribuzione e la vendita al dettaglio ne determinerebbero molto meno, ossia circa 3%. La fase di utilizzo (lavaggio, asciugatura e stiratura) il 14% e la fine del ciclo di vita (raccolta, selezione, riciclaggio, incenerimento e smaltimento) un altro 3%.
Dati del Parlamento Europeo sull’impatto climatico dell’industria tessile. Stime precise sono difficili, considerata l’intricata convergenza dei diversi settori produttivi, ma si considera che il suo impatto ammonti al 10% del totale delle emissioni di gas serra.
La produzione del cotone
Il cotone non è l’unico materiale utilizzato per la produzione dei vestiti, ma è senza dubbio uno dei più versatili, e pertanto anche dei più diffusi.
La pianta di cotone è originaria dell’Asia e dell’Africa. Secondo Wikifarmer, circa il 2,5% delle terre mondiali coltivate risultano essere coltivate con il cotone. I suoi semi vengono seminati in primavera, e il cotone è raccolto in autunno, per poi riarare in inverno e ripartire in primavera. Il suo clima ideale è un clima caldo.
Il cotone utilizzato per la produzione degli indumenti proviene, principalmente, da paesi del cosiddetto Sud Globale (anche se non solo, gli Stati Uniti sono uno dei 10 maggiori esportatori) per essere poi venduto in Europa. Qui sotto, in una mappa pubblicata in da Wisevoter nel 2023, si può osservare la produzione di cotone per paese, nel mondo. In molti luoghi ci si riferisce al cotone come ‘oro bianco’; oro, perché è la principale fonte di ricchezza del territorio; bianco, perché il suo fiore è bianco. Purtroppo, come in realtà molte altre, anche quella del cotone è una storia che produce ingiustizie profonde.
Il cotone dello Zimbabwe non migliora le condizioni di vita dei lavoratori locali
In questo articolo per The Standard, John P. Maketo racconta, attraverso parte della sua esperienza, quali effetti può avere l’industria del cotone sulle vite della popolazione. La sua famiglia si trasferisce a Gokwe da Zimuto (Zimbabwe) per una serie di ragioni, principalmente economiche, legate alla ricerca di suoli fertili e terreni agricoli. Maketo cresce quindi a Gokwe, in cui, per motivi legati alle condizioni climatiche del luogo, la coltivazione del cotone diventa la principale attività redditizia. Inizia a lavorare nella coltivazione del cotone in prima elementare. Il ciclo di produzione, racconta, dura dieci mesi: occorre preparare il terreno, seminare, sarchiare, coltivarle, spruzzare i fertilizzanti, raccogliere, imballare, vendere e pulire.
Il punto di vendita più vicino era a 25 km di distanza, e per arrivare fin lì occorrevano sei ore. Negli anni ‘80 e ‘90, i pagamenti della CMB, (ora Cottco), che aveva il monopolio nella regione, arrivavano con due mesi di ritardo. Maketo racconta che il periodo di attesa era angosciante, e le famiglie cumulavano debiti in attesa di somme incerte, un insieme di condizioni che portavano a litigi, rabbia, violenza domestica. Ad un certo punto arriva un concorrente – di fatto spezzando il monopolio di CMB/Cottco – e questo, quantomeno, pone fine ai ritardi nei pagamenti. I salari pagati ai lavoratori, tuttavia, continuano a non essere equi. Inoltre, a causa della nuova concorrenza, inizia un processo noto come ‘contract farming’: Cottco, per assicurarsi la fedeltà degli agricoltori, cerca di attirare gli agricoltori fornendo loro sementi, fertilizzanti e prodotti chimici (che avrebbero migliorato i loro rendimenti, a parità di sforzo lavorativo). In questo modo crea però un circolo vizioso: gli agricoltori diventano dipendenti da Cottco, e si innesca spesso un circolo di debiti.
Maketo ha titolato l’articolo ‘So rich, yet so poor’. Scrive questo, che nonostante milioni di tonnellate siano state prodotte a Gokwe nel corso degli anni, in questa regione gli standard di vita rimangono invariati, con moltissime persone che ogni anno sprofondano nella povertà.
Dopo il tabacco, il cotone è la seconda coltivazione più redditizia per lo Zimbabwe. Vi sono implicati più di 200 mila piccoli agricoltori, che producono il 95% del cotone totale del Paese. Si esporta circa il 70/80% del cotone totale, eppure, le regioni dedite alla sua coltivazioni sono le più povere e trascurate dal governo. In queste regioni è diffuso sia il lavoro minorile che il contract farming, realtà conosciute e sfruttati dalle aziende esportatrici. Maketo chiude auspicando un maggiore interesse da parte dei politici locali, e considera alcune possibili soluzioni per una maggiore valorizzazione del lavoro svolto dai coltivatori – ad esempio, la remunerazione in valuta estera (che già avviene per i produttori di tabacco e oro).
Il cuoio delle scarpe proviene (anche) dalla foresta amazzonica
Il cotone, pur restando quello maggiormente utilizzato, non è l’unica materia prima che utilizziamo per la produzione degli indumenti. Per le scarpe, ad esempio, viene utilizzato il cuoio, un materiale che proviene dalle pelli degli animali. In questa inchiesta per Follow the Money, Yara Van Heugten ricostruisce una parte del processo produttivo della fabbricazione delle scarpe di Adidas – che ha appunto a che fare con il cuoio.
La fine della collaborazione di Adidas con Kanye West, per un po’, aveva abbassato le vendite. Nell’ultimo periodo, invece, grazie ai nuovi modelli (Gazelle, Samba, Spezial) le sue vendite sono tornate ad aumentare. Uno dei materiali utilizzati per queste scarpe è il cuoio, che si ricava dalle pelli delle mucche. Sembra che una parte di questo cuoio provenga dagli allevamenti della foresta amazzonica. Adidas, però, lo ha sempre negato.
L’Amazzonia svolge un ruolo cruciale nella regolazione del clima terrestre, ma è minacciata dalla deforestazione causata dai rancher del bestiame, che spesso appiccano incendi per far pascolare il bestiame. Dal 2020, è scomparsa una porzione di foresta pluviale più grande del Belgio.
Nonostante sia illegale distruggere foreste nelle riserve naturali e nelle aree indigene in Brasile, le restrizioni sono state notevolmente ridotte sotto la presidenza di Jair Bolsonaro. Questo ha favorito i rancher del bestiame, responsabili dell’80% della deforestazione nella regione amazzonica.
Per l’approvvigionamento di pelle, Adidas si appoggia a JBS, la più grande compagnia al mondo per produzione di cuoio da bestiame. JBS non dichiara l’origine del cuoio che vende, ma l’inchiesta rivela che proverrebbe (guarda caso) proprio dal Brasile. JBS nega le accuse, e sostiene che le pelli che vende siano sostenibili. L’ispezione riportata da Follow The Money, tuttavia, rivela l’impiego di lavoratori senza contratto, che vivono in condizioni precarie. Le deforestazioni sono spesso illegali, e vengono abusivamente espropriate terre indigene.
Dopo aver negato e sostenuto di prestare attenzione all’impatto ambientale dei suoi prodotti, a seguito dell’inchiesta Adidas ha rivisto le sue posizioni di . In questo momento, rinunciare alle pelli provenienti dal Brasile provocherebbe una ‘grave battuta d’arresto’, ha detto il CEO di Adidas ai suoi investitori, a difesa delle sue scelte. Ha poi anche affermato che la pelle è soltanto una piccola parte dei materiali che utilizza, e che essendo un sottoprodotto della fornitura di carne, in realtà non ha un effetto diretto sulla deforestazione. FTM riporta, però, che la pelle rappresenterebbe ben un quarto dei ricavi totali dei grandi macelli brasiliani. Inchieste come queste – ne esistono diverse – lasciano, o almeno dovrebbero lasciare, qualche dubbio sull’affidabilità delle pretese di ‘sostenibilità ambientale e sociale’ di molte grandi aziende dell’industria tessile.
Infine
A livello sociale e ambientale, i principali problemi della produzione del cotone sono due: lo sfruttamento dei lavoratori, e lo sfruttamento del suolo.
Sfruttamento del lavoro
L’industria dei tessuti e della moda è responsabile di gravi sfruttamenti dei suoi lavoratori. Secondo questo report di Fashion Revolution e Fairtrade India, la questione principale è il lavoro forzato nella raccolta del cotone, a cui si accompagnano i problemi di salute causati dai pesticidi e le difficoltà finanziarie dei coltivatori, che per coprire i prezzi elevati di fertilizzanti e pesticidi sono spesso costretti ad indebitarsi.
Sfruttamento ambientale
Le principali cause dei danni ambientali dell’industria del cotone sono dovute all’utilizzo intensivo di pesticidi e insetticidi, all’utilizzo massivo di fertilizzanti, al consumo elevato di acqua, e alla deforestazione, che provocano danni alla biodiversità. Danneggiano gli ecosistemi, contribuiscono alla desertificazione, compromettono l’equilibrio ecologico e contribuiscono all’emissione di gas serra, che è una delle principali cause del surriscaldamento climatico.