Un messaggio dal futuro: le cicatrici di una lotta che continua

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Care femministe del 2024, cara società del 2024,

qui è una femminista del 2050 che parla.  

Vi scrivo dal futuro, da un mondo che avete contribuito a costruire, ma che nel vostro presente sembrava solo un sogno, una vera utopia. Nel 2050, alcune battaglie che voi avete iniziato sono ormai storia, ma alcune ferite rimangono, cicatrici profonde che ci ricordano chi eravamo, chi eravate.  

Nel 2024, vivevate in un Paese dove il 6,2% delle persone credeva che le donne “serie” non venissero stuprate. “Serie”. Come se lo stupro fosse una punizione meritata, una questione di dignità, di decoro, di colpa. C’erano ancora quei sussurri velenosi: “Se l’è cercata”. Non importava se era vestita in modo semplice o “provocante”, se tornava da sola o era in compagnia: bastava la sua esistenza.  

Nel 2024, una donna poteva essere uccisa o violentata, e la prima domanda che si faceva non era “chi è il colpevole?”, ma “perché lei era lì?”. Una società che indagava le vittime, che le colpevolizzava, che le trasformava in casi da archiviare. Mai nessuno pronto ad urlare che non era normale, che in un anno, più di 90 donne erano state uccise per mano di chi diceva di amarle o di chi si riteneva legittimato a farlo solo perché “uomo”. 

Nel 2024, vi eravate abituate a contare. A fare liste. A sommare nomi di donne che non c’erano più. Erano numeri che si accumulavano come pietre su una tomba collettiva. Venivano letti nei notiziari, ascoltati nei talk show, condivisi sui social. E poi? Poi si dimenticavano. Perché la violenza di genere era ancora qualcosa che si pensava accadesse agli altri. In un’altra casa, in un’altra famiglia, in un altro quartiere. E quando proprio non si poteva ignorarla, si trovavano scuse. Si puntava il dito: “Sono gli immigrati”. “È colpa della loro cultura”. “Sono loro che non rispettano le donne”. Il governo lo diceva, lo ripeteva come un mantra. Ma le statistiche raccontavano un’altra verità, più scomoda. Perché la maggior parte dei femminicidi, della violenza contro le donne in Italia li commettevano uomini italiani. Mariti, fidanzati, ex compagni. Quelli che conoscevate, quelli di cui vi fidavate, quelli che dicevano “ti amo” con una mano, mentre con l’altra stringevano troppo forte. Non era una questione di bandiere, né di confini. Era una questione di potere. Di controllo. Di una società che ancora non aveva imparato a insegnare ai suoi figli che l’amore non è possesso, che una donna appartiene solo a se stessa.

Ricordo dai vecchi archivi che il 7% degli italiani pensava che, di fronte a una proposta sessuale, le donne dicessero “no” per intendere “sì”. Come se il consenso fosse un gioco di interpretazioni, un enigma da risolvere, una scusa per giustificare la violenza. Voi urlavate che NO significa NO, ma quelle urla spesso cadevano nel vuoto.  

Eravate in un tempo in cui denunciare significava esporsi a processi infiniti, non solo nei tribunali, ma anche sui media, nelle strade, nelle famiglie. Per molte donne, denunciare era un atto di coraggio immenso, perché sapevano che non avrebbero trovato giustizia. Alcune venivano derise, altre ignorate. E troppe, troppo spesso, erano lasciate sole.  

E tutto questo, ancora prima, iniziava nel linguaggio, nei pregiudizi. Ogni parola che veniva usata per descrivere una donna portava con sé un giudizio. Se una donna era determinata, era “aggressiva”. Se un uomo era lo stesso, era un leader. Parlare di donne al potere sembrava una concessione, non un diritto, e ogni passo avanti era accolto con stupore o, peggio, con sospetto.  

Nel 2024, ogni donna che si affermava doveva dimostrare il doppio per ottenere la metà. I pregiudizi si annidavano nelle battute tra amici, nei proverbi antichi, nei complimenti che si rifacevano al suo corpo e alla sua mente e che nascondevano sberleffi. “Questa donna è in gamba, sembra quasi un uomo”, dicevano alcuni. O ancora: “Dietro ogni grande uomo c’è una grande donna”, come se il successo femminile dovesse sempre essere una nota a piè di pagina, mai il titolo principale. Io mi sarei sentita oppressa nel vivere nella vostra epoca. Complimenti, siete state coraggiose.  

Questo perché voi non siete rimaste in silenzio. Avete marciato, gridato, scritto, litigato. Avete messo nero su bianco che lo stupro non è un incidente, non è un errore, non è una colpa condivisa. È violenza. È potere. Avete rimarcato come la violenza non è solo quella fisica ma anche psicologica, verbale, economica ed è manifestazione di un sistema che per secoli ha relegato le donne a oggetti, a corpi senza diritti. Avete fatto capire che una donna e un uomo sono entrambi esseri umani e come tali meritevoli di stessi diritti e libertà da intendersi nel più ampio insieme. 

Oggi, nel 2050, il mondo non è perfetto, ma è quantomeno diverso. Nessuno più osa chiedere a una vittima “Che cosa indossavi?”. Nessuno può più insinuare che una violenza sia il frutto di un equivoco. E quando una donna denuncia, viene ascoltata. Non giudicata. Una donna può essere chi vuole, come vuole, con tutte le imperfezioni e le scelte che si porta fuori e dentro e che la rendono semplicemente umana.

Eppure, non ci siamo arrivati per caso. Ci siamo arrivati perché nel 2024 c’eravate voi. C’erano donne che si alzavano anche quando tutto il mondo voleva schiacciarle. C’erano uomini che iniziavano a capire che il femminismo non era una minaccia, ma una promessa di libertà anche per loro.  

Non siete state perfette. Avete sbagliato, avete pianto, vi siete sentite sole. Ma avete lasciato un segno. Avete cambiato la narrazione, avete piantato semi che oggi, nel 2050, stanno diventando alberi rigogliosi. 

Non dimentichiamo il passato, perché è lì che troviamo la forza per continuare a lottare. E non dimentichiamo voi, femministe del 2024, che ci avete insegnato una verità semplice e feroce: il cambiamento non nasce MAI dal silenzio.  

Con rabbia e amore,  

una femminista del 2050