Siamo sicuri che Dio sia maschio?

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«Altissimo, Creatore, Domineddio, Onnipotente, Padreterno, Signore». Ho chiesto al vocabolario Treccani quali fossero i sinonimi della parola ‘Dio’ e questo elenco è stato la risposta. I miei occhi devono scendere qualche riga più in basso, fino al punto 1b, per leggere termini come «deità, divinità, nume». Termini neutri, termini che parlano di un essere superiore senza fare riferimento ad alcun genere, maschile o femminile che sia. Se è vero che è inutile discutere sul sesso degli angeli, qualcuno si è mai posto il problema di riflettere sul ‘sesso di Dio’?

Siamo tutti abituati all’immagine di un Dio cristiano maschio, padre e, nella maggior parte dei casi, in là con gli anni. E molti di noi riconducono a questa immagine il simbolo della saggezza, dell’autorità, della protezione. La verità è che nei tempi biblici, le società in cui sono emerse le principali religioni monoteistiche – Ebraismo, Cristianesimo e Islam – erano in gran parte patriarcali, con una forte enfasi sul ruolo del padre come autorità familiare e protettore. «Le famiglie erano dominate da padri e i popoli erano dominati da re, era dunque scontato che fosse un Dio maschio a dominare il mondo» – se ne parla in Questioni di un certo genere, volume delle ‘Cose spiegate bene’ de Il Post. E, dato che le religioni sono frutto di una costruzione umana, è normale che abbiano ereditato una concezione del mondo e del divino tipica di un determinato contesto storico. 

È banale ma forse utile sottolineare che nel Cristianesimo la figura di Dio Padre è legata al rapporto speciale che Gesù, il Figlio, ha con Dio. Gesù si rivolgeva a Dio come Padre – ad esempio, nel ‘Padre nostro’ della preghiera, in Matteo 6:9 – e questo legame intimo è diventato un tema centrale della tradizione cristiana. La figura del Padre in questo contesto non è solo una rappresentazione di autorità, ma anche di amore e intimità. Nonostante la predominanza del linguaggio maschile, alcune tradizioni sottolineano però anche aspetti materni di Dio, come la cura e l’amore protettivo: nell’Antico Testamento Dio viene descritto più volte come il «‘padre’ di Israele, un popolo che ha scelto e protetto» (Esodo 4:22; Isaia 63:16), ma anche come un’entità che «si prende cura del suo popolo come una madre fa con i suoi figli» (Isaia 66:13) o «che protegge come una ‘gallina’ che raccoglie i suoi pulcini sotto le ali» (Matteo 23:37). La domanda sul perché Dio venga comunemente chiamato ‘Padre nostro’ e non ‘Madre nostra’ è profondamente legata a vari fattori storici, culturali e teologici che hanno plasmato la lingua e la visione religiosa nel corso della Storia.

A ogni modo, per secoli, è stata accettata e tramandata una visione patriarcale del Dio cristiano. Fino al momento in cui non è stata messa in discussione alla fine dell’Ottocento: quando anche le donne hanno cominciato a leggere e quindi a riappropriarsi di libri religiosi che erano sempre restate soltanto ad ascoltare. A partire da quel momento, venne messa in discussione l’idea che i testi sacri fossero una rivelazione ispirata e venne invece mossa la tesi secondo cui Antico e Nuovo Testamento fossero in realtà formulazioni prodotte all’interno di una determinata cultura, che portavano in sé forme di discriminazione e oppressione.

Ed è così che – ho scoperto – sono nate le teologie femministe. Teorie che hanno suggerito che l’uso di termini maschili per descrivere Dio ha contribuito a rafforzare una visione patriarcale della religione, e quindi del mondo. «Il principio critico della teologia femminista è l’affermazione della piena umanità delle donne. Tutto ciò che nega, sminuisce o distorce la loro piena umanità deve per questo essere ritenuto non redentore» si legge in Sexism and God-talk (1983) della teologa statunitense Rosemary Radford Ruether. 

Alcune teologhe hanno così cominciato a proporre di usare un linguaggio più inclusivo, che rispetti l’uguaglianza tra i sessi, o che veda in Dio una sintesi di elementi maschili e femminili. Altre hanno scelto di parlare di Dio come Madre, altre ancora di un Dio che includa in sé l’intero spettro del genere. Per fare un esempio: la reverenda Wil Gafney, docente alla Brite Divinity School del Texas, ha spiegato al Washington Post che nelle sue prediche prova quotidianamente a cambiare parole del Book of Common Prayer per riferirsi a Dio come a un’entità creatrice senza sesso né genere, utilizzando ‘Ruler’ o ‘Creator’ invece che ‘King’ o ‘Father’. In Italia, la suora e teologa catalana Teresa Forcades ha suggerito di uscire dalla logica binaria maschile-femminile per abbracciare una teologia queer. Questa prospettiva contemporanea sottolinea che le categorie di ‘maschile’ e ‘femminile’ sono costruzioni sociali che non possono essere applicate a Dio. Con la divinità che sfida e supera le convenzioni umane riguardo alla sessualità, Dio viene visto come oltre ogni identificazione di genere.

Così avviene in molte filosofie orientali, in cui la divinità o l’Assoluto è visto come trascendente rispetto alla dualità maschile-femminile. Il Taoismo, ad esempio, parla del Tao, che è un principio che non ha una forma o un genere, ma è la forza che governa l’universo. Qui, la distinzione di genere non è pertinente. Nell’Induismo, la divinità si manifesta in molte forme, sia maschili che femminili, ma la realtà ultima ‘Brahman’ è al di là del genere. Alcuni dèi indù, come Shakti – la divinità femminile – rappresentano la potenza creativa che è inseparabile da Dio, mentre altre divinità maschili come Vishnu o Shiva sono viste come manifestazioni divine. In questo contesto, la distinzione di genere non è tanto una limitazione, ma una forma di comprensione delle diverse manifestazioni divine.

Molti teologi contemporanei, soprattutto quelli che seguono approcci postmoderni o che aderiscono alla teologia queer, enfatizzano che Dio è un essere superiore “neutro”, che trascende qualsiasi categoria di genere. Quindi, la domanda non sarebbe tanto “Perché Padre e non Madre?” ma “Perché o maschio o femmina?”.