Il ruolo della letteratura nella lotta femminista

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La lotta femminista è un percorso di consapevolezza. 

Per una donna, non è scontato essere consapevole della sua condizione sistematica di inferiorità, perché ci si trova dalla nascita, così come è stato per  la madre, per la nonna e per tutte le generazioni femminili che l’hanno preceduta.  

Sono state sempre confinate in quei ruoli, che sono stati assegnati loro in secoli di società patriarcale. 

La donna è la figlia femmina che all’interno dell’ambiente domestico ha maggiori responsabilità rispetto ai fratelli maschi, diventa moglie e madre: gestisce la casa, cresce i figli e le figlie e rappresenta il centro della famiglia, la figura a cui tutti si rivolgono quando c’è un problema. 

Molti credono che “matriarcato” sia il termine adatto per individuare la situazione descritta: secondo Treccani, il matriarcato, è “un’organizzazione familiare e sociale, che si basa sui principi del patriarcato, in cui il potere è detenuto dalle donne”. 

Nel matriarcato, come nel patriarcato, le donne dettano ordini e su di loro non cade alcuna responsabilità, per questo,  credo che, in questo caso, sia più adeguato utilizzare il termine “matricentrismo” il quale significato corrisponde esattamente alla situazione descritta. 

Nel matricentrismo, scriveva Michela Murgia, “le donne sono costrette ad assumere una responsabilità palese per reggere un sistema di potere profondamente patriarcale”. La donna, così, diventa l’ingranaggio fondamentale di un meccanismo che – per sua stessa natura – non la può rendere padrona nemmeno di sé stessa e del proprio tempo e che la allontana ancora di più dalla consapevolezza della sua situazione. 

Il primo passo verso la consapevolezza è provare a raggiungere un livello di emancipazione minimo e prendere coscienza del problema, ma spesso, la maggior parte dei soprusi subiti dalle donne non vengono percepiti come tali e, quindi, chi non viene introdotto alla lotta, non prende atto del problema sociale e sistematico di cui è vittima. 

Per diversi secoli, l’ambito letterario è stato monopolizzato dal pensiero e dall’azione degli uomini, considerati gli unici detentori della cultura e del sapere, di conseguenza, erano i soli ritenuti capaci di tramutare i loro pensieri in parole. 

Alle donne non era permesso istruirsi, scrivere, essere indipendenti ed esprimere i loro pensieri con facilità, come lo era per gli uomini. Questo è il motivo per cui, in letteratura, si andarono sempre di più diffondendo gli pseudonimi, tramite i quali molte autrici celavano la loro vera identità. 

Le donne erano considerate inferiori e capaci di trattare solo argomenti futili e superficiali, proprio per questo motivo, può risultare abbastanza difficile individuare anche solo tre donne che abbiano fatto la storia della letteratura, aprendo degli spazi sulla questione femminile. 

Inoltre, il nostro sistema culturale e sociale ha portato alla nascita di un punto di vista che ha deformato linguisticamente la percezione femminile di termini utilizzati per indicare quei mestieri che per secoli sono stati svolti solo da uomini. Secondo la sociolinguista Vera Gheno, le grandi lingue di cultura non sono sessiste di per sé”. 

Vera Gheno dimostra con il suo lavoro che l’italiano contiene al suo interno tutti gli strumenti per usare la lingua in maniera paritaria. 

È l’atteggiamento di chi usa la lingua che può avere risvolti più o meno sessisti. 

La resistenza, per esempio, all’uso dei femminili professionali non è giustificata né morfologicamente né storicamente. In latino i nomina agentis, cioè i nomi di chi compie un’azione, al femminile, sono entrati nell’uso ogni volta che c’era una persona di sesso femminile a fare un certo lavoro: ministra, per esempio, nel senso di amministratrice. 

Adesso, sulle questioni linguistiche impattano questioni di carattere socioculturale, come nel caso dell’ uso del femminile nei nomi di professioni. 

La lingua italiana, che è una lingua con il genere grammaticale,  prevede il femminile: ogni sostantivo può avere generi differenti, ad eccezione di alcuni casi limite. 

I nomina agentis non sono quindi una strana manipolazione della lingua italiana, ma sono forme previste dal sistema morfologico. 

Il fatto che alcuni femminili suonino strani, deriva dall’abitudine al loro impiego. 

Nonostante la censura del femminile in ambito letterario, ci sono state donne che con i loro scritti hanno lasciato un segno nel tempo e nella società in cui vivevano.

In particolare, è di spicco Simone De Beauvoir, filosofa, considerata la madre del pensiero femminista radicale che sostiene che le donne possano liberarsi solo quando abbiano eliminato un sistema patriarcale intrinsecamente opprimente e dominante con lo scopo di vivere le loro vite in maniera autodeterminata. 

Nel 1949, pochi anni dopo la fine del secondo conflitto mondiale, pubblica Il secondo sesso opera autentica e progressista che propone di smantellare i tabù sul genere femminile e di rivalutarli sviscerandone il carattere primordiale e analizzando una per una e senza veli, le problematiche e le questioni ritenute “spinose” riguardanti il mondo femminile.

Tramite lo studio e l’osservazione di questi punti, Simone De Beauvoir, fa un’analisi logica e puntuale della società patriarcale in cui vive. 

Prendendo in considerazione elementi storici, biologici, culturali e letterari, delinea una per una le cause relative alle differenze sociali e politiche tra uomo e donna. 

Afferma che alla base della differenza tra il genere femminile e quello maschile vi è una causa non biologica bensì culturale. Culturalmente parlando l’uomo è considerato la centralità di ogni atto, il punto fondamentale intorno al quale ruota tutto. La donna, al contrario è il secondo sesso, la figura non essenziale e definita in virtù dell’uomo e dal suo riflesso. La donna non è un essere umano libero: è peso, mera subordinazione e sottoprodotto della figura maschile, un essere indifeso che ha bisogno di protezione.

La rivendicazione sovversiva di Simone de Beauvoir pone le sue basi nel concetto di femminilità. 

La risposta a questo dilemma è che il “problema delle donne” è, in realtà, un problema dell’uomo, una credenza culturale malsana e alla quale è necessario ribellarsi con tutte le forze. Simone de Beauvoir afferma anche “non si nasce donna, lo si diventa”: ci si trasforma in donne quando un essere umano subisce le pressioni del marasma culturale e sociale che la considera tale. 

Altra figura di spessore nella letteratura femminista è Alba de Céspedes. Femminista ante litteram, era una donna tenace, lo  capiamo dal suo impegno politico, dalla sua esigenza di giustizia e libertà, ma soprattutto dallo stile e dalle parole dei suoi libri.

La sua era una scrittura appassionata e raffinata, che si interrogava sulla Storia, cercando di comprendere profondamente il senso della società e del suo tempo.

Autrice di spessore etico e intellettuale, pensava che la sua vocazione artistica dovesse in qualche modo sostenere il suo impegno politico. 

Nonostante questo, la critica ha cercato in alcuni casi di incasellare le sue opere nella letteratura rosa, senza riuscirci. 

Era conosciuta anche come Clorinda, il suo pseudonimo radiofonico, nonché nome di battaglia da partigiana. In “È una donna che vi parla, stasera” (Mondadori, 2024) raccoglie le veline delle trasmissioni radiofoniche di “L’Italia combatte” condotte su Radio Bari dal novembre 1943 al giugno 1944. Accompagnate da pagine di diario e da stralci di lettere, non raccontano solo gli eventi da cui nasce la “nuova Alba”, ma anche un’esperienza che è morale e politica prima ancora che intellettuale.

Nel 1949 pubblica “Dalla parte di lei” (Mondadori, 1949) che definisce “La storia di un grande amore e di un delitto”. Una storia raccontata sullo sfondo della guerra e della lotta partigiana, stupefacente per la varietà delle situazioni, l’esattezza dei ritratti, la ricchezza dei toni.

Alessandra Corteggiani, narratrice e protagonista, rievoca in un memoriale le sue vicende familiari e personali, raccontando “Dalla parte di lei” la storia del nostro paese e degli anni a cavallo tra fascismo, resistenza e successiva ricostruzione in senso democratico. 

La protagonista cresce sempre più consapevole della questione femminile ed è determinata a ottenere per le donne lo stesso rispetto tributato abitualmente agli uomini. Dalla sua parte diventa, quindi, un gioco di specchi, in cui la presa di coscienza della donna riesce a trasformare la rassegnazione in ribellione. 

Tra il 1950 e il 1951 viene pubblicato a puntate “Quaderno Proibito” (Mondadori, 1952), il quale viene considerato il capolavoro di Alba de Céspedes. La sua protagonista ancora una volta è donna, e risponde al nome di Valeria Cossati.

È una esponente della classe media nell’Italia degli anni Cinquanta, con più di quarant’anni, due figli grandi, un marito disattento, un lavoro d’ufficio che svolge senza apparente passione.

Che cosa potrebbe sconvolgere questo ritmo naturale della quotidianità piccolo-borghese in cui si trova Valeria, senza rendersene conto, tra i suoi ruoli di moglie, madre, impiegata?

Un impulso. Un semplice impulso che la protagonista crede irragionevole e inspiegabile e che le fa acquistare un taccuino, su cui comincia ad annotare fatti e riflessioni. Quelle pagine bianche diventano spazio proibito della scrittura, in cui Valeria scopre i conflitti sotterranei che pervadono la sua esistenza. Nasce così la voce – che forse c’è sempre stata ma che involontariamente è stata sempre soppressa – e che decide di esprimere una propria individualità: una precisa coscienza, rivelata dai gesti e dai pensieri della vita quotidiana. “Quaderno Proibito” è un libro, ma è soprattutto la testimonianza storica di un’epoca, un tributo a una generazione pre-femminista, decisiva per tutte le rivoluzioni successive, e ancora una magistrale prova letteraria capace di svelare l’identità, frammentata e mutevole, dell’essere umano. 

Alba de Céspedes è una figura decisiva in questa direzione: attraverso le sue opere è stata, da sempre, portavoce della condizione femminile nonostante le sue opere siano state nell’ombra fino alla fine del secolo scorso. Inoltre, il suo impegno politico e letterario è stato fondamentale nella lotta femminista, per aver avvicinato maggiormente alla causa lettori e lettrici.

Considero Michela Murgia il simbolo del femminismo italiano del nuovo millennio. 

Michela Murgia era una scrittrice, una divulgatrice di cultura queer e femminista, ma anche una raffinata teologa, capace di riprendere in modo inedito quel filo di nesso, che lega la teologia alla filosofia e alla politica. 

Nelle sue storie, nella sua ricerca teologica e anche nelle sue battaglie mediatiche, per il riconoscimento dei diritti che, come le sue Morgane, sono fastidiosi e scomodi perché generano conflitti, Michela Murgia è stata capace di descrivere il mondo come un contesto oppressivo e di continuo schiacciamento dall’alto verso il basso, ma nel quale sono ancora possibili rari momenti di accesso alla Grazia. 

In “God save the Queer” (Giulio Einaudi Editore, Torino, 2022), Michela Murgia ragiona di fede e femminismo, osservando, come punto di partenza, la sua esperienza personale di donna cattolica, femminista e queer. Ripercorrendo tappe e mutamenti del suo percorso di fede, l’autrice ci conduce in una profonda riflessione, che allarga la prospettiva e ci costringe a fare i conti con la complessità di una faccenda che è molto più sfumata e plurale di quanto spesso si tenda a raccontare.  

Ben conscia dei limiti dell’istituzione, in cui il suo credo si è storicamente tradotto, non nega gli aspetti problematici e non ha la pretesa di riscattare la Chiesa da certe pagine oscure del suo passato o dalle scelte controverse del suo presente; né ambisce a restituirne un’immagine falsata che possa spingere lettori e lettrici non credenti a rivedere le proprie scelte di fede, ma si interroga sulla possibilità di costruire alleanze abbattendo rigidi schemi divisivi e ripartendo da quelle che il suo sguardo ci racconta come visioni comuni.

In “Stai zitta”  (Giulio Einaudi Editore, Torino, 2021), Michela Murgia coglie perfettamente uno dei più grandi problemi di fronte al quale ci troviamo ancora oggi: una donna che parla infastidisce, provoca, disturba, mette a disagio. 

Se si è donna, in Italia, si muore anche di linguaggio. 

È una morte civile, ma non per questo fa meno male. 

“Stai zitta” di Michela Murgia è uno strumento che evidenzia il legame mortificante che esiste tra le ingiustizie che viviamo e le parole che sentiamo. 

Di tutte le cose che le donne possono fare nel mondo, parlare è ancora considerata la piú sovversiva. 

Michela Murgia sostiene che la società sia un problema di chiunque la viva. 

Negli ultimi ottant’anni, si sono ottenuti importanti risultati riguardo la condizione femminile come il diritto di voto nel 1946 o l’abolizione del matrimonio riparatore nel 1981. 

Nonostante i grandi passi compiuti a favore della causa, siamo ancora molto lontani dal raggiungere la parità di genere, perché le leggi da sole non sono sufficienti. 

È necessario un cambiamento culturale che coinvolga la società nella sua interezza, affinché le convinzioni e i comportamenti evolvano verso una reale uguaglianza.