Giorgia Meloni: l’antieroe del femminismo

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Da donna, vedere altre donne rivestire ruoli lavorativi di primo piano è sempre stato di grande ispirazione.

Quando ero più piccola, era importante per me sapere che ci fossero donne a cui ispirarmi e, con tutta l’ingenuità e la fortuna di essere stata bambina negli anni Duemila, non mi accorgevo di quanto profondo fosse il divario lavorativo tra donne e uomini. Mi era sufficiente sapere che le mie maestre del cuore erano donne, così come tutti i membri più simpatici della mia famiglia e le attrici dei miei cartoni Disney preferiti.

Poi sono diventata un’adolescente e ho iniziato a vivere sulla mia pelle cosa significasse essere donna. Ho iniziato a guardarmi attorno e ho capito cosa volesse dire essere donna anche sulla pelle delle mie amiche, delle mie zie, delle icone della tv che tanto amavo. 

È stato allora che il femminismo ha iniziato a prendere posto nella mia vita, non come scelta, ma come necessità. Il femminismo non l’ho scelto io; è lui che ha scelto me.

Diventare femminista è stato un processo. Lo sono diventata studiando, leggendo, confrontandomi e militando insieme alle mie sorelle, unite nella nostra rabbia. Scoprendo, dunque, che essere femministe è l’unica strada per rivendicare il nostro diritto ad esserci, e ad esserci come lo diciamo noi.

È attraverso questo percorso che mi sono accorta che la mera partecipazione delle donne al mondo del lavoro non fosse più sufficiente. E forse non lo era mai stato.

Da bambina non mi interrogavo sulla questione, ma da ragazza bruciava in me il desiderio di vedere donne che non solo lavorassero, ma eccellessero, arrivando alle vette del loro settore. Fremevo dalla voglia di accendere la tv e sentir parlare delle grandi menti femminili che esistevano attorno a me o che mi avevano preceduta.

Quando ho sentito parlare per la prima volta di Tina Anselmi, prima ministra donna in Italia, ho pianto. L’idea che una donna si fosse fatta agilmente spazio nel mondo più male-dominated di sempre – la politica – mi ha colpito come niente prima di allora.

Così, quando nel 2022, ancora acerba in termini di politica, ho scoperto che una donna era alla guida del partito preferito dai votanti alle elezioni politiche, sarei dovuta esplodere di gioia. Eppure, così non è stato.

Al di là delle mie opinioni sulla sua linea politica, Giorgia Meloni è stata la delusione più grande per la me donna, che in lei vedeva realizzarsi i desideri di quell’adolescente arrabbiata e speranzosa. Invece, Meloni si è velocemente trasformata, ai miei occhi e non solo, nell’antieroe del femminismo.

Con il suo rifiuto di definirsi “la presidente”, Giorgia Meloni ha rivendicato fin da subito la continuità con un sistema maschilista ed escludente, dove le donne possono riuscire solo se sono “con le palle” – vale a dire: solo se sminuiscono il femminismo, ridicolizzandolo pubblicamente e riaffermando un tradizionalismo maschio-centrico.

Così, Meloni si è rivelata l’incarnazione di una politica femminile, ma non femminista. La sua elezione alla Presidenza del Consiglio è stato un momento importante di rivendicazione, in cui è stato finalmente evidente che anche le donne possono farcela. 

Eppure, l’amaro in bocca è rimasto. La sua ascesa politica non ha sfidato le strutture di oppressione di genere che stanno alla base della società. Anzi, le ha favorite anche attraverso il suo perenne elogio della meritocrazia che, tuttavia, non è sufficiente a sfondare le barriere che gli uomini costruiscono attorno alle donne, emarginandole, da millenni. 

Se non sei ricca, ben connessa o “parente di”, se vieni dal Sud, hai origini straniere, sei queer o disabile, “darsi da fare” spesso serve a poco. Spaccare il soffitto di cristallo diventa impossibile.

Da donna, mi sarei aspettata che Giorgia Meloni smontasse questo sistema. 

Mai avrei pensato che lo avrebbe rafforzato, parlando del femminismo come di un’ideologia divisiva, senza riconoscere che solo ed esclusivamente le lotte femministe le hanno permesso di essere dove si trova oggi. 

È grazie a ogni singola donna che l’ha preceduta che oggi “il” presidente del Consiglio può salire su un palco e scagliarsi contro la collettività dei femminismi.

Questo è il problema più grande: il suo successo personale non cambia nulla per tutte le altre donne che continuano a vivere in un sistema costruito per escluderle. Avrei voluto vedere in Meloni una donna che non solo arriva in alto, ma che usa quel potere per cambiare le cose. Una leader in grado di riconoscere che il femminismo non divide, ma unisce; che non è un privilegio di poche, ma una lotta collettiva per la libertà di tutte.

E invece, Meloni ha scelto di rappresentare qualcosa di diverso: non un’icona di cambiamento, ma la conferma che il sistema può tollerare una donna al vertice, purché non provi a cambiarlo. 

È il simbolo di un sistema che premia l’eccezione per farci credere che il cambiamento sia già avvenuto, quando in realtà non è mai stato così lontano.

Ma per abbattere quel soffitto di cristallo non basta chi ci dice che ce la possiamo fare da sole, perché il cambiamento non arriva con l’eccezione: arriva quando nessuna di noi finisce col restare indietro.


Credit foto: presidenza Consiglio dei ministri