Femminismo intersezionale: l’eredità di Kimberlé Crenshaw oggi

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Sempre più, all’interno dei movimenti femministi si sente pronunciare il termine “intersezionalità”. Movimenti di grande rilievo, in Italia e all’estero, utilizzano questo termine per descrivere le caratteristiche delle proprie battaglie. Ma cosa significa effettivamente essere intersezionali? E quali sono le origini e l’evoluzione di questo concetto che oggi riveste un ruolo così centrale?

Il termine viene introdotto per la prima volta nel 1989 dalla giurista Kimberlè Crenshaw all’interno di un articolo per la Columbia University. Riprendendo studi precedenti di grandi attiviste come Angela Davis, Crenshaw analizzò le relazioni che intercorrono tra classe sociale, razza e genere, e che generano così dei sistemi di oppressione che non possono essere compresi separatamente l’uno dall’altro. Infatti, Crenshaw ricavò dai suoi studi che le discriminazioni non si limitano a sommarsi, ma si amplificano reciprocamente, creando sistemi di oppressione unici e complessi.

Crenshaw illustrò il concetto di intersezionalità attraverso l’analisi di tre casi giudiziari, tra cui uno contro la famosa General Motors. In questi casi, le donne afroamericane una duplice discriminazione: sia razziali che di genere. Tuttavia, i tribunali tendevano a esaminare i due aspetti separatamente, respingendo tutte le accuse. Tra le difese presentate, le aziende affermavano di non essere sessiste perché in realtà assumevano donne (anche se tutte bianche), o di non essere razziste perchè avevano assunto degli afroamericani (anche se tutti uomini). Questo sistema ignorava completamente come le donne nere, subendo discriminazioni su più fronti, fossero escluse dalla possibilità di ottenere giustizia. 

L’intersezionalità di Kimberlè Crenshaw ha introdotto un nuovo approccio critico essenziale al femminismo basato sulla comprensione che le identità individuali sono complesse e intrecciate. Una donna non è solo donna, ma appartiene anche a una classe sociale, una razza, una cultura. La condizione femminile, pur centrale, non esaurisce l’esperienza di oppressione. Una donna nera, ad esempio, vive il maschilismo in modo diverso rispetto a una donna bianca, così come una donna disabile o migrante affronta altri ostacoli specifici.

Adottare un approccio intersezionale significa riconoscere che il femminismo non riguarda solo un’unica tipologia di persone, tradizionalmente composto da donne bianche e istruite. La liberazione passa attraverso il riconoscimento delle molteplici discriminazioni affrontate, evitando gerarchie di importanza e promuovendo un sostegno reciproco tra le diverse battaglie. Il movimento femminista non può, infatti, ignorare le altre dimensioni identitarie – come razza, classe, orientamento sessuale o abilità – che modellano l’esperienza di ogni donna in maniera diversa ma ugualmente importante.

Un femminismo intersezionale si propone dunque di combattere non solo il patriarcato, ma anche le altre forme di oppressione che si intersecano con esso. Solo così può essere realmente inclusivo e rappresentativo delle esperienze di tutte le donne. La lotta non è solo per i diritti delle donne, ma per i diritti delle persone, affinché ogni identità possa trovare pieno rispetto e dignità.

L’evoluzione e diffusione di questo concetto non è però avvenuta senza critiche. Come si può leggere in alcuni articoli pubblicati ne La Falla, il giornale del Cassero LGBTI+ Center di Bologna, utilizzare in maniera diffusa e acritica il termine intersezionalità può creare dei problemi. Si riporta come i due punti fermi tradizionali che presuppongono l’esistenza dell’intersezionalità siano il femminismo e le questioni di razza. Tuttavia, sembra che l’intersezionalità si sia diffusa come elemento per descrivere qualsiasi lotta, dal bullismo al body shaming. Qui si apre un grande rischio evidenziato dalla femminista nera brasiliana Carla Akotirene, ovvero comparare queste problematiche con il razzismo. Allargare a tutte le disuguaglianze e discriminazioni il termine intersezionalità significa spogliare le femministe nere anche di questa analisi e appropriarsi di un lavoro che a fatica si è fatto strada nel femminismo del Nord globale del XX secolo. Viene intesa dunque da Akotirene come un’appropriazione culturale da parte del femminismo e delle femministe WEIRD (western, educated, industrialized, rich, democratic), ovvero la parte più ristretta dell’universo femminile, ma iper-rappresentata a livello globale.

E’ proprio dall’abuso del termine in ambito accademico e nel mondo attivista che proviene la seconda critica, ovvero quella di un passaggio del termine da un approccio descrittivo a uno prescrittivo. Per farla semplice, Crenshaw più volte ha ribadito come l’intersezionalità debba essere considerata come una lente di analisi, un framework, e non come una dichiarazione di intenti. L’intersezionalità è nata come uno strumento per capire al meglio la complessità delle esperienze di discriminazione. Di conseguenza, viene spiegato ne La Falla, è quantomeno di complessa interpretazione definire qualcuno/qualcosa o auto-definirsi intersezionali. Con il tempo, però, questo si è trasformato in un’etichetta o in uno slogan da sfoggiare che persone, gruppi, organizzazioni o addirittura sfilate, utilizzano per mostrarsi inclusivi e, ancora peggio, alla moda. Facendo ciò si rischia tuttavia di privare del concetto del suo obiettivo e della sua importanza. 

Infine, un elemento fondamentale dell’intersezionalità è che dall’intersezione di diversi assi di oppressione ne esce una risultante che non può venire dissezionata, e quindi compresa come una somma o gerarchia di oppressioni. L’utilizzo superficiale di questo concetto rischia tuttavia di minacciare tale elemento fondante, e per di più di minare la stessa causa femminista. Sarebbe come fare lo stesso gioco di coloro che (e qui intendo propriamente la politica di destra) si scagliano contro tale concetto e descrivono l’intersezionalità come una metodologia di fare politica in cui il valore delle opinioni degli individui dipende dal numero di gruppi di vittime ai quali si appartiene.  

È allora chiaro che il termine nel tempo abbia assunto delle caratteristiche diverse rispetto a quelle con le quali era stato concepito. Tuttavia, è la stessa Crenshaw a sottolineare come questo sia il destino inevitabile dei concetti che vengono applicati al di fuori dello schema nel quale sono stati sviluppati. Ma ciò non è necessariamente un elemento negativo. Per molti, come il movimento Non una di meno, l’intersezionalità è diventata parte integrante della lotta femminista e transfemminista. Come dimostra l’articolo scritto sul sito del movimento da Adriana e Alice del Collettivo Femminista Grrramigna, il concetto si è certamente modificato, ma è evoluto in maniera consapevole e attenta, adattandosi ai cambiamenti del nostro mondo.

Perché l’intersezionalità mantenga la sua forza trasformativa, è fondamentale allora utilizzarla con consapevolezza e rispetto delle sue origini e della sua importanza, evitando interpretazioni semplicistiche o riduttive. Solo così l’eredità di Kimberlé Crenshaw potrà diventare un pilastro capace di trasformare lo status quo della nostra società all’interno della battaglia femminista.


Credit foto:  Wikimedia Commons