Voci di confine
La storia di Harshwinder Singh e Rajinder Kaur: tra sacrifici, speranza e legami inaspettati
Harshwinder Singh ha 26 anni quando decide di lasciare il Punjab per l’Italia, nel 1998. Una scelta difficile, quasi obbligata, dettata dalla situazione economica della sua famiglia e dalle pressioni che arrivano da casa. Ha terminato l’università, ma le opportunità in patria sono poche e insufficienti. Così prende un volo per un paese di cui non conosce nulla: la lingua, la cultura, persino il clima. Si ritrova a San Bonifacio, in provincia di Verona. La scelta della destinazione non è casuale: “Lì c’è qualcuno che può aiutarti”, gli hanno detto. Così, armato solo della sua determinazione e di un contatto vago, arriva in un piccolo paese immerso tra i vigneti, dove tutto sembrava così diverso. Il suo primo impatto con l’Italia è spiazzante. Nessun volto famigliare intorno: solo sconosciuti e sguardi indifferenti. Nessuno che gli assomigliasse, nessuna traccia di casa.
Il suo primo lavoro è per un circo itinerante. Non certo il sogno della sua vita, specialmente dopo aver terminato l’università, ma rappresenta una possibilità di sopravvivenza. Vive giorno per giorno, imparando l’italiano dalle poche conversazioni con i colleghi, accumulando gesti e parole nuove come un bambino che inizia a parlare.
Conosce molti altri ragazzi che, come lui, hanno abbandonato il proprio Punjab per motivi simili, costretti a fare lavori umili, nonostante le loro lauree. Il circo diventa, per Harshwinder, l’unico luogo in cui trovare un po’ di conforto.
Harshwinder non ha mai voluto lasciare il Punjab. Il suo sogno è diventare un calciatore professionista. A scuola hanno riconosciuto il suo potenziale e sanno che sarebbe arrivato a gareggiare a livello nazionale. La situazione economica, però, non glielo permette. Così, con un sogno più realistico, Harshwinder decide di fare il meccanico, sperando di aprire una sua officina in città, poco distante da casa, ma anche quel sogno si rivela irraggiungibile.
L’inclusione è un percorso solitario e spesso doloroso, tra sogni infranti e obbligazioni. Si trasferisce, poi, in una ditta a lavorare come operaio, una posizione più stabile ma altrettanto impegnativa. Dipende interamente da quello “sconosciuto” che lo ha aiutato a ottenere il posto. Un legame fragile ma essenziale: senza quell’aiuto, Harshwinder non avrebbe altro sostegno. Dopo essersi stabilizzato, imparando la lingua, può – finalmente – essere più indipendente.
Nel 2002, Harshwinder torna brevemente in India. Lì,sposa Rajinder Kaur. La promessa di una vita insieme significa anche per lei l’inizio di una nuova avventura: lasciare tutto ciò che conosce per raggiungere un uomo in un paese straniero.
Nel 2003, Rajinder arriva a Monteforte d’Alpone. È incinta, piena di timori e speranze, ma almeno al suo fianco ha il marito. L’integrazione per Rajinder fu più semplice grazie alla presenza di un’altra famiglia punjabi che viveva nelle vicinanze. È un piccolo sostegno, ma sufficiente a creare una rete di solidarietà. Nella loro vita entra anche Vittorina, una vicina di casa italiana. È una signora anziana dal sorriso sempre pronto. Vedendo Rajinder sola, spesso senza il marito, decide di darle una mano. Le insegna l’italiano e anche il dialetto, una parola alla volta, un’espressione alla volta. Non solo: Vittorina cucina per Rajinder piatti tipici della cucina italiana, cercando di alleggerire la sua solitudine con piatti che potessero regalarle un po’ di conforto. Le sue attenzioni sono materne, quasi istintive, come se sentisse che quella giovane donna avesse bisogno di una figura su cui contare.
Non tutti, però, vedono di buon occhio il comportamento di Vittorina. Suo figlio, Domenico, non approva.
“Non dovresti aiutare gli stranieri, mamma. Sono diversi. Non puoi fidarti di loro, non conoscono la nostra lingua, non rispettano la nostra cultura,” ripete spesso. Tale pregiudizio e ostilità si manifestano anche nelle sue azioni: impedisce alla madre di andare a casa di Rajinder e mostra atteggiamenti freddi sia verso la coppia sia verso l’altra famiglia punjabi. Vittorina non gli dà ascolto. Vede Rajinder come una figlia, non come un’estranea. Non contano né la lingua né la provenienza: ma il bisogno di calore umano e il valore della solidarietà.
Quando nasce Jesmean, Vittorina è una delle prime persone a conoscerla. Le sue attenzioni si riversano su quella piccola creatura, che considera quasi una nipote.
Curiosamente, anche il cuore di Domenico si ammorbidisce davanti a Jesmean: la bambina riesce a sciogliere i suoi pregiudizi.
Da allora, Domenico si è sempre preso cura di Jesmean e della famiglia, trattandoli come se fossero parte della sua. Ogni Natale, Pasqua, Vaisakhi e Diwali vengono celebrati insieme, nonostante le culture differenti: imparano reciprocamente dalle proprie tradizioni.
Non a caso, oggi Jesmean si sente sia italiana che punjabi.
La storia di Harshwinder e Rajinder non è solo una storia di migrazione e di sacrificio. È una storia di legami umani che travalicano le barriere della lingua e della cultura, una storia di accoglienza e di cambiamento. In un piccolo angolo di provincia, tra campi e fabbriche, si è creata una comunità inaspettata, fondata sulla solidarietà e sull’amore.
Il ricordo di Vittorina vive nella memoria di Rajinder e Harshwinder, e soprattutto negli occhi di Jesmean, che cresce sapendo che l’affetto può nascere nei luoghi più inaspettati e tra persone apparentemente distanti.
Domenico, che un tempo era scettico, oggi è lo “zio” per quella bambina che ha cambiato la sua visione del mondo.