Stereotipi e lavoro: donne migranti in prima linea

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Una delle sfide più rilevanti della nostra epoca è certamente quella di riconoscere l’importanza delle nostre decisioni personali, soprattutto in tema di diritti umani. Mi spiego meglio: quando si parla di diritti delle donne e di uguaglianza di genere, spesso l’attenzione si sposta verso una responsabilità collettiva, sottovalutando il potenziale delle nostre azioni individuali. Tuttavia, il nostro comportamento quotidiano, dal sostegno alle politiche inclusive alla lotta contro le disuguaglianze, ha un effetto tangibile e può contribuire notevolmente al progresso dei diritti. Un esempio simile di come le scelte personali possano influenzare il cambiamento è “il percorso delle donne migranti in Italia”.

Queste donne, che affrontano difficoltà enormi nel conquistare parità di diritti e opportunità, si trovano spesso a fare i conti con ostacoli strutturali e sociali. In questo scenario, le azioni personali come il sostegno all’inclusione e alla parità di genere, possono avere un impatto rilevante. In particolare, le donne di origine straniera costituiscono una parte significativa della popolazione italiana, con oltre 2,5 milioni provenienti da paesi come Romania, Albania, Ucraina, Marocco, Moldavia, Filippine e Cina. Secondo i dati forniti dall’ISTAT, le donne rappresentano il 52% della popolazione migrante, una percentuale in costante aumento. Ma quali sono le difficoltà principali che affrontano nel raggiungere una vera uguaglianza di genere?  

Il nodo principale riguarda soprattutto la condizione lavorativa precaria delle donne straniere in Italia. La loro situazione nel mercato del lavoro è, infatti, particolarmente problematica, in quanto sono spesso costrette ad accettare impieghi instabili e mal remunerati. Le mansioni più frequenti includono l’assistenza a domicilio e i servizi domestici, settori caratterizzati da elevati livelli di informalità contrattuale e stipendi insoddisfacenti. Questa segregazione occupazionale riflette, e allo stesso tempo rinforza, stereotipi di genere che limitano significativamente le possibilità di crescita professionale per le donne immigrate. Ma perché queste lavoratrici si trovano relegate a tali ambiti? Una delle ragioni principali è la difficoltà nel far riconoscere le qualifiche professionali ottenute nei loro paesi d’origine. Inoltre, l’accesso a opportunità lavorative più sicure e qualificate è ostacolato dalla mancanza di programmi di formazione e integrazione adeguati. Secondo i dati ISTAT, le donne migranti guadagnano in media il 20% in meno rispetto alle donne italiane, un dato che evidenzia il profondo divario salariale che esiste anche all’interno dello stesso genere​. In particolare, il settore dell’assistenza familiare emerge come uno degli ambienti più a rischio di sfruttamento. Le statistiche dimostrano che circa il 70% delle assistenti familiari in Italia sono donne migranti, provenienti in larga parte da Ucraina, Filippine, Perù e Moldavia. Questo lavoro, spesso svolto in condizioni di invisibilità e senza le dovute tutele, diventa un vero e proprio “limbo occupazionale”, limitando gravemente le opportunità di miglioramento e l’autonomia economica di queste donne​. 

A rendere ancora più complessa la situazione è la presenza radicata degli stereotipi di genere. Ma quale ne è la causa? Questi pregiudizi alimentano e mantengono la disuguaglianza, poiché spesso le donne migranti vengono percepite come “naturalmente” predisposte ai lavori di cura e assistenza. Tale visione trova le sue radici in concezioni culturali e storiche che trattano queste mansioni come una vocazione femminile, svalutandone il valore e l’importanza. La conseguenza? Queste donne incontrano notevoli difficoltà a emergere nel mercato del lavoro, vedendo drasticamente ridotte le possibilità di accedere a ruoli professionali più qualificati e gratificanti. Tuttavia, non si tratta solo di una questione occupazionale. La disuguaglianza di genere si acuisce ulteriormente in un contesto in cui le politiche di integrazione tendono a trascurare le esigenze specifiche delle donne immigrate, focalizzandosi esclusivamente su questioni più generali riguardanti il fenomeno migratorio. Questo modo di procedere ignora le ripercussioni che le differenze di genere hanno sui loro percorsi professionali e sulle opportunità di emancipazione economica.

La situazione si complica maggiormente quando si affronta il delicato argomento della violenza di genere. Un rapporto dell’UNHCR mette in luce come le donne migranti vivano in uno stato di vulnerabilità accentuata di fronte a varie forme di abuso, tra cui violenza domestica, sfruttamento sessuale e molestie nei luoghi di lavoro. Secondo uno studio condotto da Amnesty International, le donne migranti sono frequentemente vittime di abusi non solo a causa della loro condizione di vulnerabilità, ma anche a causa di una serie di fattori che ne limitano le possibilità di difesa. Per esempio, nel caso delle stesse lavoratrici domestiche, molte di loro sono costrette a vivere sul posto di lavoro, affrontano un rischio maggiore di maltrattamenti e con poche opportunità di cercare aiuto. Questo non è solo dovuto alla loro marginalità sociale ed economica, ma anche alle barriere linguistiche e culturali che impediscono loro di difendersi o denunciare le violenze. La mancanza di conoscenza della lingua rende difficile comprendere i propri diritti o comunicare con le autorità. La precarietà economica e la dipendenza finanziaria da partner violenti, insieme alla mancanza di diritti lavorativi, le espone ulteriormente. Temono che denunciare gli abusi possa comportare la perdita del lavoro o, per chi ha uno status migratorio incerto, il rischio di espulsione.

L’impossibilità di reazione di queste donne è poi amplificata dalla scarsa consapevolezza dei propri diritti e dal non poter accedere a reti di sostegno adeguate. Si esita a contattare le autorità, temendo ripercussioni legali, stigmatizzazione culturale o addirittura conseguenze familiari. La spirale di paura alimenta un circolo vizioso di isolamento e silenzio. Per esempio, una donna che affronta la violenza domestica potrebbe sentirsi bloccata dalla paura che la sua famiglia venga coinvolta o che le autorità la considerino una minaccia per la sicurezza pubblica, complicando ulteriormente la sua situazione. Più nello specifico, in Italia, i dati dell’UNHCR, confermati da ISTAT, evidenziano una realtà preoccupante: circa il 40% delle donne migranti ha subito o è a rischio di subire violenza di genere. La statistica appena menzionata include gravi forme di abuso psicologico, fisico e sessuale, e mette in luce come una percentuale significativa di queste donne non riesca a denunciare gli abusi subiti. Il problema è radicato non solo nella mancanza di un’adeguata protezione legale, ma anche nell’assenza di supporto sociale efficace. Nonostante la legislazione italiana, come la legge 119/2013, offra strumenti per contrastare la violenza domestica, il percorso per le donne migranti è ancora pieno di difficoltà. Un esempio è il permesso di soggiorno per motivi umanitari, che potrebbe rappresentare una via di fuga per molte vittime. Tuttavia, la consapevolezza di questo diritto è scarsa, e la complessità burocratica, unita alle barriere linguistiche e culturali, ostacola il processo di denuncia. La paura di ripercussioni legali, legata a uno status migratorio incerto, aggrava ulteriormente la situazione, rendendo urgente l’adozione di politiche che siano realmente inclusive e accessibili per le donne più vulnerabili. 

Ma cosa possiamo fare noi per cambiare questa situazione? Per comprendere appieno le complessità delle realtà che vivono le donne migranti, è spesso necessario fare qualche passo indietro e osservare le situazioni da una prospettiva differente. Solo così possiamo raggiungere una consapevolezza autentica. La risposta potrebbe trovarsi proprio in quell’attuale limbo tra le consuetudini passate e i diritti futuri. Per migliorare la condizione delle donne migranti, è quindi essenziale abbracciare un approccio che sia inclusivo e autentico. Le politiche di integrazione devono trasformarsi in percorsi che favoriscano accesso a occupazioni dignitose e sicure, assicurando nel contempo una protezione efficace contro le violenze che purtroppo si subiscono con frequenza. È fondamentale anche riconoscere le loro competenze professionali e confrontarsi con i pregiudizi e gli stereotipi di genere che continuano a interessarle. Troppo spesso, vengono giudicate attraverso una lente ristretta, che le riduce a semplici vittime o a lavoratrici poco qualificate, ignorando la loro complessità e le loro aspirazioni. È fondamentale smantellare queste percezioni distorte attraverso campagne di sensibilizzazione che evidenzino il loro valore e le loro potenzialità. Solo in questo spazio di intersezione, dove il passato si intreccia con le aspirazioni prossime, possiamo veramente costruire un futuro migliore per queste donne, permettendo loro di sentirsi al sicuro, valorizzate e, soprattutto, libere di diventare chi desiderano essere.