La narrativa distorta delle migrazioni tra news e cinema

› Scritto da

Le migrazioni sono una questione attuale, tutt’altro che recente. Il modo in cui i mass media ne parlano incide sulla nostra percezione come lettori. Qui, il giornalismo tradizionale gioca un ruolo cruciale nel plasmare l’opinione pubblica. Il modo in cui le testate giornalistiche e i periodici online narrano un evento, oltre a determinare quello che pensiamo dello stesso, spesso determina anche la modalità attraverso la quale altri strumenti di fruizione della cultura, primo tra tutti il cinema, ne raccontano. Sempre più frequentemente, questo porta a narrative contraddittorie e distorte.  

Le notizie sui flussi migratori sono spesso caratterizzate da una narrazione centrata sull’emergenza e sul conflitto. I migranti sono “altro” dalla società e i toni che li raccontano allarmistici. Si parla di “crisi migratoria” o di “invasione di immigrati”, focalizzando l’attenzione sui fantomatici “elevatissimi numeri di migranti”, piuttosto che sulle cause che stanno alla base del fenomeno stesso. 

In realtà, ad oggi, in Italia, vivono circa cinque milioni di stranieri, che rappresentano meno del 9% dell’intera popolazione italiana [Dati Istat, 2024]. 

È chiaro come questo tipo di giornalismo “sensazionalista” riesca nell’intento di alimentare la paura dell’ignoto e di ridurre i migranti a “mere statistiche”, disumanizzando, così, le loro esperienze individuali. 

Non è rara, a questo proposito, la spersonalizzazione che emerge da questa tipologia di articoli: non si utilizzano nomi e cognomi, ma si parla soltanto di un “immigrato” (accompagnato da una presunta, a volte erronea, nazionalità) che “ha commesso qualcosa”. 

Un esempio molto recente è la vicenda di cronaca della donna che ha assassinato, investendolo per tre volte, l’uomo – un immigrato! – che le aveva rubato la borsa. Oltre a non  citare mai il nome dell’uomo e a sentire la necessità di evidenziare il suo status da migrante, molte testate giornalistiche non hanno neppure nascosto un certo sadismo verso l’accaduto, parlando della donna in termini di una “imprenditrice che si è fatta giustizia da sola” – come se, d’altro canto, la legge del taglione non fosse ormai illegale da tempo.

Ovviamente, però, questo tipo di accanimento contro i migranti vale soltanto se questi ultimi hanno un profilo ben specifico (generalmente provenienti da Medio Oriente o Africa), altrimenti non si parla di loro in termini di minacce, ma di risorse, in quanto individui che arrivano nel paese ospitante per mettere a frutto le proprie competenze e conoscenze. Come detto da Jasper Bennink, editore per la newsletter di The European Correspondent, “gli stranieri sono benvenuti solo se considerati utili per la società o l’economia; altrimenti, sono sempre più respinti”.

La distorsione della realtà migratoria, che emerge dalle news, ha una forte correlazione col modo in cui il cinema rielabora le vicende e le riadatta per produrre film, serie tv o cortometraggi sul tema. In generale, la produzione cinematografica si concretizza in un approccio documentaristico oppure in uno più finzionale.  Spesso il protagonista  con background migratorio è ridotto a simbolo di sofferenza o esemplificazione di un problema sociale, rispecchiando la drammatica deumanizzazione già presente nei media. A ciò si aggiunge l’immancabile immagine, tipica di sistemi con grossi retaggi imperialisti e colonialisti, dell’Europa come terra di salvezza ed emancipazione, come il luogo in cui potranno essere finalmente liberi e – implicitamente – civilizzati.

È questo quello che emerge in svariate produzioni sul tema, tra cui rientra anche “Io capitano”, il film più recente di Matteo Garrone e vincitore del David di Donatello per il miglior film nel 2024. La pellicola racconta di Seydou e Moussa, due giovani senegalesi, e del loro viaggio verso l’Italia per sfuggire alla miseria. 

Da un lato, Garrone ha avuto la capacità di mostrare quella che è la vera tragedia del viaggio: il deserto, gli orrori dei campi di detenzione in Libia e i pericoli del mare. 

D’altro canto, come il giornalista Lorenzo Guadagnucci ha ben analizzato, “Io capitano” non colpisce a fondo. 

La sua mancanza di spessore politico, concretizzata nella visione dell’Italia come “terra promessa”, lo trasforma nell’ennesimo film pregnante di white saviour complex. Nell’omettere che la responsabilità di queste odissee è proprio dell’Occidente, non fa altro che riproporre la retorica politico-mediatica ricorrente.

Tuttavia, non tutta la produzione cinematografica ricalca passivamente i modelli giornalistici. 

Alcuni registi cercano di sfidare le narrative dominanti e offrire una prospettiva alternativa sulle migrazioni. Un esempio calzante è il lungometraggio “Mediterranea” di Jonas Carpignano, che segue il viaggio dei giovani Ayiva e Abas dal Burkina Faso all’Italia. 

La storia, in questo caso, mette in luce la loro grande complessità in quanto esseri umani, attraverso un occhio autentico ed empatico, piuttosto che trattarli come semplici vittime o numeri in una crisi. 

È chiaro come questa narrazione sia in netto contrasto con quella proposta dai media, ed è un ottimo esempio di come il cinema possa riportare una visione più profonda di quella mass mediatica.

Per spezzare questo tipo di narrativa, è importante dare alle persone migranti uno spazio in cui autodeterminarsi e raccontarsi, cercando di offrire una prospettiva più durevole e approfondita delle migrazioni in un’epoca in cui le notizie sono sempre più momentanee e veloci.

Quindi, se da un lato, le news offrono spunti e storie che il cinema rielabora all’interno delle stesse cornici narrative, esso ha anche la capacità di sfidare queste narrazioni, proponendo visioni più articolate e umanizzanti del fenomeno migratorio. 

Mentre il giornalismo si concentra sull’immediatezza e l’emergenza, il cinema ha la possibilità di narrare storie di migrazione che vanno oltre la superficie, creando così uno spazio per la riflessione critica su un fenomeno tanto complesso.