Appunti per un naufragio: dialogo con Davide Enia
Compro “Appunti per un naufragio” (Sellerio, 2017) di Davide Enia nel 2022, appena tornata dalla seconda esperienza a Lampedusa con Change The Future e il Comitato 3 ottobre.
Trovo il coraggio di leggerlo solo a distanza di due anni dal mio ritorno.
Mi chiedo da molto cosa significhi scrivere di migrazioni e Davide risponde con una scrittura sincera, vulnerabile e intensa. Scrivere di migrazioni è scrivere di rapporti umani.
Vorrei raccontare del rumore del cucchiaino nella tazzina di caffè che avrei preso volentieri con Davide, ma è una videochiamata a ovviare alla nostra distanza fisica. Lui a Palermo, io a Torino.
Cosa significa per te scrivere di migrazioni?
Io vado a Lampedusa senza avere una chiara idea di cosa scriverò. Ci vado perché c’è qualcosa che sta succedendo, da anni, in quella che è un’estensione di casa mia. Per me, la casa è la Sicilia. Lampedusa ne è parte, come gli arcipelaghi che abbiamo intorno: Pantelleria, Ustica, le Eolie, le Egadi.
Se fosse successo a Lesbo non sarei andato.
C’è un’urgenza che nasce dal fatto che conosco il luogo: ci andavo già da tempo e ne conosco l’ambito culturale. Vado lì e dopo un po’ di incontri, in cui cerco di mettermi nella posizione di chi osserva – quindi non completamente invisibile – faccio in modo che chi vuole parlarmi possa farlo.
Capisco due cose: tutte le persone con cui costruisco un dialogo mi parlando in dialetto. Sono tutti meridionali, siciliani, palermitani. Parlavamo in dialetto, cioè con quella che è stata, per noi, la lingua della culla e che permetteva una nominazione non solo più immediata, più ancorata alle viscere, ma più precisa.
La seconda cosa la capisco quando il mio amico Simone mi racconta per la prima volta del 3 ottobre.
Racconta. È lì, in mezzo al mare, prende la barca e dice: “Adesso vado a destra o vado a sinistra?”.
Va a destra e dopo un po’ vede una tappina (ciabatta di plastica, in siciliano, ndr), una bottiglia, un documento, vede una magliettina, vede un’altra bottiglia, un corpo, poi vede una cinta, un’altra tappina, un altro corpo. Che è successo?
Poi scopre della dinamica, ma nelle prime ore il barcone non si trova. Allora la Guardia Costiera, per riuscire a rintracciarlo, chiede aiuto ai lampedusani.
Simone è un sommozzatore. Conosce benissimo tutta la costa lampedusana, l’ha percorsa tutta per lavoro.
Si immerge ed è lui che trova il barcone. Mi racconta che immergendosi, vedeva un corpo a 20 metri, scendeva e ne vedeva un altro. Poi vede il barcone: era appoggiato sull’alga posidonia.
C’erano delle persone, due abbracciate sulla poppa.
È il primo a entrare in stiva: scopre cinquanta morti. Mi dice: “Mi venne l’arrivugghio” (mi è venuto l’attorcigliamento, ndr) e poi non dice più niente.
L’arrivugghio è il movimento che ti arrotola i vuredda (le budella, in siciliano, ndr) e ti impedisce anche di parlare.
Sono stato in grado di processare il silenzio, a cui il mio interlocutore consegnò il nostro dialogo, perché è lo stesso dentro il quale io sono stato costruito come essere umano.
“Aspetta, qua c’è qualcosa di narrativamente interessante, attraente”, mi dico.
L’altro aspetto è che, seguendo l’intuito, avevo deciso di portarmi mio padre a Lampedusa. Qui, poi, si inserisce il pensiero che va a mio zio Beppe, perché dopo il primo sbarco è mio padre che mi dice che la sua assenza di parole era paragonabile a quando mio zio ha avuto un secondo tumore, dopo averne sconfitto uno.
Come nasce l’idea di scrivere un romanzo?
Nei primi mesi, tutto quello che provo a scrivere racconta del rapporto tra me e mio padre, ma io ho chiaro che a un certo punto quello che mi interessa è scrivere un romanzo.
Per me un romanzo è un tentativo di costruzione e di evocazione di un mondo che abbia una sua compiutezza, una sua capacità di dialogo interno, una sua coerenza, tramite delle specifiche parole che fanno emergere e affiorare davanti agli occhi questo mondo qui.
Quindi è un lavoro che viene fatto tanto sulla forma, quanto sul contenuto, che sono veramente inscindibili, e sulla voce.
Nel momento in cui voglio scrivere il romanzo, immediatamente dichiaro il fallimento della mia operazione, tanto che lo chiamo “Appunti per un naufragio”.
Gli appunti sono la forma “meno romanzo” che noi possiamo avere, proprio perché viene a mancare la completezza. Lo faccio perché intendo sottolineare che almeno metà della storia che provo a raccontare e della storia delle persone che attraversano il mare non la conosciamo, per i motivi stessi che mi hanno spinto a scrivere.
Non abbiamo una nominazione nella loro lingua diretta e non l’abbiamo per diversi motivi.
Nessuno parla la loro lingua e il trauma dell’esperienza subita non gli permette di avere ancora coscienza di quello che accade. Infine, non li abbiamo mai ascoltati e l’unica posizione che andrebbe presa in questi casi è proprio quella dell’ascolto.
Questo lavoro, poi, diventa “L’abisso”, quindi una scrittura in presa diretta – il verbo che si fa carne nel teatro – perché non avevo creato distanza tra me e i fatti che mi hanno trapassato, licenziando il romanzo, e ho avuto bisogno di utilizzare l’altro piede della mia modalità di scrittura, che è la parola che si fa tempo, proprio nella logica del palcoscenico teatrale.
Cosa c’entrano i rapporti umani con la scrittura? E con le migrazioni?
Per me la scrittura – di un romanzo, di una drammaturgia o, nel proprio corpo, della riscrittura che è propria del teatro – è un’apertura di dialogo tra i vivi e i morti, sempre.
Le assenze che vengono evocate confermano la propria presenza, non solo sulla pagina ma proprio su un diverso piano di realtà spirituale.
La scrittura, quindi, è una scala per salire e scendere tra queste realtà. È un tramite, un ponte, un dialogo che avviene in maniera circolare anche attraverso il tempo.
Non soltanto con i contemporanei, ma anche con quelli che sono assenti nel contemporaneo, come se scrittori amati dei secoli passati siano in grado oggi di darmi delle risposte.
Più dialogo di questo cosa c’è?
Questo funziona anche con gli esseri umani, con le persone che ancora sono vive e che non sono proprio vicino a me. Tipo Paola e Melo, i miei amici che sono a Lampedusa, di cui parlo nel libro, quando faccio lo spettacolo sono lì con me. C’è tutta una selva di fantasmi che affonda il palcoscenico e che non mi lascia mai solo. Anche il mio amico sommozzatore, tutti quanti sono lì, anche durante il processo di scrittura.
Secondo me è importante, per il mio percorso autoriale, lasciare sempre un margine di assenza di controllo.
Tu ti affidi al personaggio, fidandoti delle parole. Tu ti devi fidare che quella frase basta, senza entrare nelle spiegazioni, senza cedere al narcisismo della composizione della frase.
Scrivere non è mai una gara.
Scrivere è un fare domande, trovare le risposte, ascoltare sistematicamente e provare in qualche modo a creare la predisposizione per incontrare l’altro e l’oltre. Questo ha a che fare anche col tema della migrazione.
La migrazione è anche attraverso i tempi, l’atto della scrittura, infatti il movimento è consustanziale all’esistenza: tutto si muove. Si muove il pianeta che abitiamo. La terra ci racconta come sono le cose, attraverso la tettonica delle placche, ad esempio.
Cosa significa per te Lampedusa rispetto alla scrittura?
Scrivo dove mi capita. Per scrivere serve semplicemente un supporto su cui farlo.
La mia prima scrittura è sempre in testa. Ad esempio, il mio lavoro più recente “Autoritratto”, presentato al Festival di Spoleto, non l’ho mai scritto sulla pagina: l’avevo tutto a memoria.
Sono modalità che si esercitano e che vengono più o meno naturali.
Si scrive perché a un certo punto c’è una scadenza di consegna. Altrimenti sarebbe veramente un’operazione infinita.
Adesso è cambiato tutto rispetto al 2017, che è l’anno in cui ho consegnato alle stampe “Appunti per un naufragio”.
È cambiato tutto: c’è stato un doppio – infamissimo – decreto sicurezza, c’è stata l’esperienza di Mediterranea, poi la criminalizzazione e la violentissima esternalizzazione della frontiera, partita con Minniti, con il finanziamento europeo e italiano dei criminali in Libia. Ora è una situazione ancora più preoccupante. Completamente diversa.
Ho avuto il coraggio di leggerlo due anni dopo il mio ritorno. E tu? Quando l’hai scritto?
A Lampedusa ci andavo una volta ogni tre settimane: andavo e scrivevo, andavo e scrivevo.
È un lavoro del tutto analogo a quello dell’antropologo. Andare nei luoghi, cercare non tanto di comprendere, ma di farsi compenetrare da essi. Permettere, alle persone che sono lì residenti o che ci vanno a lavorare, di trovare in te un orecchio pronto ad ascoltare. Non è storcere, ma aprire le mani e ricevere quello che accade.
Sul campo, quali sono le tre cose che hai imparato e che senti di lasciare a chi inizia a scrivere di migrazioni?
Ho imparato che bisogna fidarsi delle parole e che una volta che si scrive il libro bisogna dimenticarsene. Il libro va per i fatti suoi.
Ne ho avuto conferma presentando i libri: è una rottura. Il teatro è molto più divertente.
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Finisco di leggere “Appunti per un naufragio” il 3 ottobre 2024, qualche giorno dopo la nostra intervista e undici anni dopo quel naufragio. Le lacrime bagnano le ultime pagine e scrivo a Davide: Credo di non aver mai pianto così davanti a un libro. Grazie, l’ho finito oggi il tuo “Appunti per un naufragio”.