Un futuro luminoso per il cinema 

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L’estate, si sa, mette d’accordo tutti o quasi, non solo perché le giornate si allungano e le temperature si alzano, ma anche perché porta con sé il tanto atteso periodo dei cinema all’aperto che tra novità e restauri (ri)portano sullo schermo una selezione dei film più apprezzati dal pubblico e dalla critica.

Gli ultimi mesi sono stati davvero ricchi di perle e di opere più o meno conosciute che meriterebbero però di essere viste e riviste.

  1. La chimera di Alice Rohrwacher

“Signore, stava sognando? Mi spiace ma non saprà mai come andrà a finire”

Perché vedere questo film: per uscire per un attimo dalla realtà senza mai abbandonarla davvero

Nel paesaggio del tutto inusuale della Tuscia, tra Umbria, Lazio e Toscana, si snodano le vicende di un gruppo di tombaroli di bassa estrazione, costretti a introdursi nelle tombe etrusche e a trafugarne i cimeli per guadagnarsi da vivere e rivenderli sul mercato illegale grazie al non meglio identificato tramite Spartaco, che prende il nome dal celebre personaggio latino passato alla storia per aver guidato la rivolta degli schiavi nella Roma repubblicana del I secolo. Con un’adorazione spesso superstiziosa questi loschi figuri fanno così il loro ingresso in un mondo altro, in un regno inaccessibile ai più e lontano dagli occhi dei turisti che accorrono piuttosto a godersi i fori e le ville imperiali fuori dalla capitale. 

Nonostante quest’atmosfera quasi idilliaca fin da subito è chiaro il combattimento interiore che avviene nelle loro coscienze e che li pone spesso nella condizione di fare i conti con le scelte che compiono. Italia, una della banda, è guidata da un’autentica intenzione politica nel restituire “a tutti ciò che ora non è di nessuno”, salvando questi reperti dalla musealizzazione indiscriminata. Alla guida di questo gruppo fuori da ogni schema c’è Arthur, uno dei protagonisti, se non il protagonista maschile più interessante e psicologicamente caratterizzato del cinema recente, a metà tra un moderno Teseo, in costante contatto con la sua Arianna, e un Orfeo alla ricerca disperata dell’amata perduta.

In paese lo definiscono “lo straniero” sottendendo sì le sue origini britanniche, ma disegnando anche fin da subito una linea tra lui e “gli altri”. Arthur diventa la sintesi perfetta tra io, Dio e mondo grazie a delle facoltà superiori che prendono le forme di “chimere”, visioni in cui i due mondi si fondono e confondono e che lo rendono partecipe di un rapporto privilegiato col regno delle anime in cui introduce i compagni che gli si affidano completamente, una sorta di santone che nasconde in sé i segreti dell’aldilà e che, nei suoi pochissimi dialoghi, dimostra il suo sentirsi estraneo al mondo dei vivi da sempre.

Ma sopra questo mondo sommerso, lontano dagli occhi degli uomini, sorge anche un’antica stazione abbandonata dove insieme a Italia, con cui Arthur intesserà un rapporto speciale, abita una microsocietà composta solo da donne, una comune che nasce dalla cura e sorellanza in cui tutte le abitanti vivono come reperti preziosi da conservare fuori dal tempo e dallo spazio del villaggio caotico a pochi passi da essa…

Pur candidato a 13 David di Donatello, questo gioiello di Rohrwacher non ne ha ottenuto nemmeno uno, totalmente oscurato da C’è ancora domani, straordinario esordio alla regia di Paola Cortellesi.

La fotografia curata nei colori nelle inquadrature, capace di fondere i formati, prima il 35 millimetri, il super 16 millimetri e il 16 millimetri, ci immerge in un mondo parallelo per dare vita a un’opera che sa di etereo, ma che riesce a essere allo stesso tempo incredibilmente reale, quasi materica nel contatto costante con la terra e la sabbia, una favola senza tempo che ci interroga continuamente sul senso dell’arte e alla fine anche della vita stessa. E non è un caso che la regista dedichi quest’opera “agli archeologi, custodi di ogni fine”.

  1. Civil War di Alex Garland

 “Lo stato della nazione è direttamente collegato allo stato del nostro mestiere

Perché vedere questo film: per godersi un war movie in piena regola immergendosi in quasi tre ore di pura adrenalina, ma riflettendo anche sul nostro presente

Un’attualità distopica ma nemmeno così lontana dal reale è stata portata in scena da Alex Garland con la sua opera Civil War, da molti considerata la più completa e matura del regista britannico.

In un’America spaccata in due da un conflitto dalle origini nebulose si inseriscono le vicende di tre fotogiornalisti Lee, Joel, Sammy, o meglio tre fotogiornalisti e mezzo perché a loro decide di unirsi anche Jessie, un’aspirante fotoreporter alle primissime armi.

Lee è mossa da un obiettivo che la accende più di qualunque altro: fotografare la caduta definitiva del presidente in una Washington in cui sparano a vista ai giornalisti. Ha così inizio quello che è a tutti gli effetti un road movie in cui i protagonisti attraversano gli Stati Uniti tra il ritmo degli scatti della macchinetta e quello dei proiettili delle armi, che li condurrà in un viaggio antropologico alla scoperta di soldati, generali, civili più o meno raccomandabili, piccoli e grandi criminali. Garland riesce così a dipingere un affresco crudo ma reale di cosa sia veramente una guerra civile, un conflitto di tutti contro tutti in cui non ci si può davvero mai fidare di nessuno. Attraverso la crisi del giornalismo che prende le sembianze di un’etica sempre meno marcata il regista ci vuole raccontare in realtà la crisi delle democrazie e di come esse siano strettamente interrelate. Volutamente ambiguo, e forse è proprio questa la sua forza, i contorni del conflitto restano sfocati senza mai specificare il partito del presidente o il criterio con cui avvengono gli schieramenti tra Stati, spostandosi da una fazione all’altra senza mai parteggiare per nessuno.

La macchina da presa con tagli e inquadrature studiate al dettaglio spesso e volentieri si trasforma in una macchina fotografica che immortala le violenze perpetrate da ogni parte, ma anche le imprese che compiono i protagonisti scandendo un tempo frenetico che non lascia spazio ad esitazioni.

Con un rovesciamento di paradigma geniale la guerra smette di essere mossa dal Paese guerrafondaio per eccellenza per spostarsi in casa propria e riprendendo in modo più o meno esplicito riferimenti alla guerra in Vietnam, in Iraq e non solo, gli abusi si ritorcono contro i carnefici di quelle violenze troppo spesso dimenticate o minimizzate dalla storia.

  1. Le Haine di Mathieu Kassovitz 

“Un uomo cade da un palazzo di cinquanta piani e a ogni piano continua a ripetersi jusqu’ici tout va bien, jusqu’ici tout va bien, jusqu’ici tout va bien (fino a qui tutto bene), ma il problema non è la caduta, è l’atterraggio”

Perché vedere questo film: per soffermarsi su quanto il punto di vista sia in grado di rovesciare la verità di un racconto (e della storia)

Una guerriglia urbana dai contorni decisamente diversi, ma non così distanti è al centro di Le Haine (L’Odio), cult senza tempo uscito a maggio nella nuova versione restaurata di Mathieu Kassovitz, un film, premio alla regia di Cannes 1995, che ha segnato una generazione e che ancora oggi è in grado di restituirci uno spaccato di società attualissimo, ma invisibilizzato: la difficile realtà della periferia.

Ci troviamo nelle banlieue degli anni ‘90, divise da lotte intestine tra oppressori e oppressi, grandi e piccoli criminali, forti e deboli.

Recitato in uno slang parigino strettissimo e rappresentato con una straordinaria fotografia urbana in bianco e nero dai fortissimi contrasti tra luci e ombre – così come il confine tra buoni e cattivi che si delinea dal punto di vista dei protagonisti – il film accompagna le 24 ore di una banda di amici mostrando le contraddizioni e il tormento interiore di dover scegliere tra il fare la cosa giusta e il sopravvivere alle insidie che sono sempre in agguato dietro l’angolo in una realtà in cui devi mangiare per non essere mangiato.

In questo scenario frammentato prendono corpo le storie di Vinz, un giovanissimo Vincent Cassel, ebreo di nascita, Hubert, ragazzo nero dalle grandi ambizioni e Said, bello e dannato di origini arabe, quasi a dimostrazione di quanto il razzismo e le rivalità siano dei lussi che può concedersi solo chi non rischia la vita ogni giorno e di come il disagio e l’esclusione che vivono e percepiscono sotto pelle li renda uniti contro un nemico comune, una società che li etichetta come criminali senza speranza né prospettive, da allontanare e reprimere anche nel sangue.

Il quartiere è sconvolto e in cerca di vendetta dopo il pestaggio di Abdel, loro amico anch’esso arabo, da parte della polizia e proprio da questo fatto hanno inizio una serie di reazioni a catena dai contorni spesso molto crudi. 

La narrazione della vita di strada viene quasi personificata nella colonna sonora con costanti riferimenti al genere urban e hip-hop anche nella danza e nei valori che porta con sé, mostrandone le diverse, ma complementari declinazioni, in un sistema che ha sempre relegato questi vissuti a esperienze artistiche di serie B, anzi Z.

Eppure il vero protagonista è l’odio, che dà anche il titolo al film. Le immagini e le voci che scorrono sullo schermo guidano lo spettatore alla scoperta di questo sentimento indagando e analizzando le infinite sfumature di cui si colora e portando sulla scena le (de)legittimazioni di esso da parte del potere e dei media. La pellicola scava nel profondo riflettendo sul senso dell’odio come strumento politico e le sue diverse implicazioni a partire da quella di classe perché in particolare Vinz è mosso da una rabbia insopprimibile e molto spesso incontrollabile verso gli abusi di qualunque natura, pronto a tutto in nome di una giustizia quasi sempre privata.

Con una serie di geniali riferimenti e citazioni più o meno esplicite Kassovitz mette in scena un’opera da leggere su moltissimi livelli e caratterizzata da scene e citazioni che hanno fatto la storia del cinema, come l’iconica preparazione di Vinz dove si guarda allo specchio mentre si esercita a fare il teppista spremendosi i brufoli sul naso, leggendaria citazione da Taxi driver di Scorsese, dimostrando come questi ragazzi alle prese con situazioni spesso molto più grandi di loro stiano in realtà interpretando dei ruoli imposti dalle condizioni che vivono. 

Un film più che mai necessario in un mondo sempre più guidato dall’odio razziale, dall’abuso di potere, dall’autoritarismo e da violenze di ogni genere, che mostra come questa società si lasci dietro innumerevoli vittime pronte a rovesciare il tavolo delle trattative per riprendersi ciò che gli spetta di diritto. L’Odio è capace di parlare moltissimo nonostante i dialoghi spesso ridotti all’osso e lo fa in modo molto diretto e provocatorio nel senso più positivo che ci sia perché ci invita a prendere posizione e schierarsi con riflessioni etiche senza tempo sul vero significato di bene e male, mostrando come esso sia spesso frutto di punti di vista privilegiati. Il film sembra chiederci a più riprese “tu da che parte stai?”, ma soprattutto: “Fino a dove gli oppressi hanno diritto all’autodifesa?”.

Già solo da queste tre opere, ma ce ne sarebbero molte altre da citare, emerge la necessità che muove le registe e i registi di questo periodo storico ad accompagnarci per mano alla scoperta di dimensioni reali e fittizie in grado di parlarci del nostro presente, come ha fatto anche Gerwig. Sempre di più infatti scelgono una chiave poetica troppo spesso ignorata perché più impegnata e poco mainstream quando anche l’incredibile successo di Cortellesi dimostra che il futuro è più che mai luminoso per chi sa abitare questi confini invece di tentare di superarli…