Quel che resta

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Qualche mese fa mi sono laureata. Laurea in Scienze Politiche a Bologna. Durata: circa tre anni e qualche mese. Nel mezzo, un’esperienza di Erasmus studio, un tirocinio e un periodo di volontariato. Ho iniziato con non troppa cognizione di causa, seguendo un po’ l’istinto e – fortunatamente – non caricando questa scelta di troppa importanza. 

La conclusione di questo percorso, come credo avvenga un po’ per tutti, mi ha portato a riflettere su questi tre anni, mettendo sulla bilancia la conclusione di ciò che è stata prima di tutto un’evoluzione personale. C’è un nodo, in particolare, che ho fatto più fatica a sciogliere. Di solito sono questi i pensieri su cui vale la pena insistere un po’ di più.

Sono stata tante persone in questi anni, ho avuto i pensieri più diversi, su chi ero e che cosa volevo fare, ma c’è una costante che non si è mai risolta: il rapporto con la mia città natale e, più precisamente, con chi sono all’interno del suo perimetro e chi sentivo di essere fuori. Ogni volta che andavo e tornavo, piccole fessure squarciavano/aprivano i confini, ben definiti, della mia identità, rendendomi difficile capire chi ero veramente e conciliare queste parti sconosciute del mio sé. 

I couldn’t help but wonder: dove finiva questa nuova percezione di me stessa che avevo quando ero fuori, come potevo cucire insieme le due “persone” non perdendo pezzi delle mie evoluzioni personali? Come si fa a conciliare chi sei nella tua realtà di sempre e chi diventi, piano piano, quando fai timidamente i tuoi primi passi al di fuori di quello schema conosciuto? 

Tutt’ora non trovo risposta, ma questo è uno spazio per rifletterci un po’ su. Il motivo che mi spinge a indagare è la convinzione che sia qualcosa che riguardi tutti quelli che se ne vanno, ma forse in modo più intenso chi intraprende il mio percorso, riassumibile con la dicitura generale “Scienze Politiche e Relazioni Internazionali”, dettato in molti casi da un desiderio di andare all’estero, scoprire nuove realtà, e mettersi in discussione.

Sono cresciuta all’interno di una realtà provinciale (ma qualcosa mi dice che non sia poi così diverso in certi ambienti di città più grandi), dove i criteri di identificazione sono semplici e poco creativi: come fai di cognome, il quartiere dove sei nato, l’occupazione dei tuoi genitori, il liceo che frequenti, gli amici che ti scegli (o che non ti scegli). Ti muovi all’interno di un piccolo spazio, accuratamente delimitato, dove chi sei e/o chi ti senti di essere è più determinato dallo sguardo altrui e dove, per qualche motivo, rinnovarsi e cambiare risulta complicato. All’interno di questo meccanismo mi ci sono sempre mossa abbastanza facilmente, sentendo però fisso dentro di me un desiderio di qualcosa di diverso, lontano, non conosciuto. Forse questo ingranaggio ha iniziato a funzionare diversamente quando me ne sono andata, da quel momento in poi non credo di averlo più sentito interamente mio.

È strano, e forse ovvio da dire, ma quando poi te ne vai, non torni mai più come prima. Le prime volte che tornavo ricordo di aver provato un certo conforto nel vedere che tutto in questa bolla di spazio-tempo era rimasto immutato: la voce del treno che annunciava l’arrivo aveva lo stesso timbro, la stazione era uguale, fuori la stessa aria, le stesse case, la stessa gente. Per qualche motivo mi stupivo che la vita fosse andata avanti esattamente come prima. 

Non credo sia qualcosa che avviene immediatamente, nel mio caso, almeno, è stato un processo graduale, fatto di alti e bassi, non ancora terminato: a volte sono scappata da dove stavo e sono corsa a casa, a volte è successo che non vedevo l’ora di lasciare la mia città e che, guardando la stazione allontanarsi dai finestrini, ho sentito sollievo, libertà e un po’ di senso di colpa. 

Ricordo, in particolare, tornando da un anno di Erasmus di aver pensato molto a dove sarebbero finiti tutti quei progressi interiori che sentivo dentro di me. Sentivo di essere una persona completamente diversa da quella che era partita e allo stesso tempo sempre io, sentivo di poter fare qualsiasi cosa, e al pensiero di tornare avevo paura. Quei progressi sarebbero sfumati? Si sarebbero tramutati in un ricordo di una delle tante persone che ero stata o li avrei semplicemente custoditi dentro di me? Ricordo che parlavo di un “nuovo spazio”, una nuova stanza tutta per me che avrei creato gradualmente, che avrebbe richiesto tempo e dove avrei cercato di inserire tutte le cose che sentivo di aver imparato, le persone che avevo conosciuto, i nuovi desideri e paure che avevo maturato. Questi pensieri si ripetono, tutte le volte che vado e che torno, non importa quanto sto via, o che tipo di esperienza io abbia concluso: ogni volta c’è un nuovo pezzetto di me che aggiungo a questa stanza. A volte sento che faccio fatica a tenere tutto insieme, a ricordare tutto e penso che una certa me del passato forse avrebbe gestito le cose diversamente. Mi fermo e penso se mi sto scordando qualcosa. A volte invece sento un’armonia completa, tutto è al suo posto, ogni piccolo ingranaggio di questo meccanismo, ogni oggetto di questa stanza è perfetto nell’insieme. Tutte le mie evoluzioni lavorano insieme per completare chi sono e chi sono sempre stata, anche quando torno qui, a casa. 

Non credo ci sia una soluzione ultima, per ognuno questo intricato rapporto tra chi sentivi di essere, chi ti dicevano che eri, e chi invece senti che vuoi diventare, è assolutamente diverso e personale. Molte volte è utile allontanarsi per vedere certe situazioni più chiaramente, per capirsi davvero. Forse chi si è davvero risiede nel mezzo, in quei tragitti in treno o in aereo, sospesi in quest’area sopraelevata, neutrale, dove si cerca di tracciare una linea tra da dove si viene e dove si va.