FOTO - Jag tänker på mig själv – Växjö ( 'I am thinking of myself - Växjö') by Marianne Lindberg De Geer, 2005, outside the art museum (Konsthallen) in Växjö, Sweden

La retorica del grasso

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*con la revisione tecnica della Dott.ssa Elisa Gardini, nutrizionista esperta nel trattamento dei DCA

Nell’opinione generale, quella che vediamo più diffusa e narrata su media e social media, l’immagine dell’estate rievoca, subito dopo quelle conosciutissime spiagge gremite e mari cristallini, l’idea di serenità, felicità persino. Su TikTok spesso vediamo parlare impropriamente della “depressione stagionale”, nonostante sia un disturbo psichiatrico reale (il Disturbo Affettivo Stagionale o “DAS”, ndr), al punto di affermare con assoluta certezza che la temperatura di qualche grado più alta sia l’assoluta foriera di serenità e spensieratezza.

Eppure la realtà è ben diversa. Il 2-3% delle persone soffre di disformismo corporeo (MSD Manuals), un disturbo per cui l’immagine corporea, a livello psicologico, è percepita come ampiamente deformata, creando in noi una visione falsata di come appariamo all’esterno.più di 3 milioni di italiani sono affetti da un Disturbo del Comportamento Alimentare (Associazione Bulimia Anoressia), malattie che impattano gravemente l’autostima dei pazienti mettendone a rischio la stessa vita. Moltissime altre persone soffrono di disturbi che impattano sulla propria percezione di sé senza però rendersene conto.

L’accettazione dei corpi non conformi nel periodo estivo è sempre destinata a scendere inesorabilmente a livelli infimi. Su ogni social siamo bombardati di ragazzi palestrati a torso nudo e ragazze in costume dal fisico snello e slanciato: gli ideali di bellezza che siamo abituati a considerare a livello societario. I negozi di abbigliamenti menzionano la “prova costume” come un mantra, l’ossessione per le taglie raggiunge il picco.

Da persona con un corpo non conforme, negli anni passati (che di chili ne avevo molti di più) ero quasi imbarazzato nel chiedere costumi nella mia taglia in negozio. Erano sempre relegati in qualche angolo che sembrava quasi nascosto, spesso quelle che consideravano “taglie forti” non mi entravano nemmeno su una gamba. Il costo poi, sempre altissimo, con cartellini raramente sotto i trenta euro. 

L’anno scorso ho passato un weekend al lago, ho fatto un solo bagno. La vergogna che provavo nei confronti del mio corpo mi portava a dire “non voglio togliere la maglietta”, e l’unica cosa che ha funzionato è stata la terapia d’urto (e qualche insulto bonario) da parte dell’amica con cui ero in quel momento. 

Nessuno di noi nasce disprezzando il corpo grasso, e a dire il vero, il corpo grasso viene bistrattato da pochi secoli. In Fat Phobia di Sabrina Strings (Mar dei Sargassi, 2022, Trad. Marina Finaldi) la sociologa indaga la nascita del fenomeno della “grassofobia”, individuandone la nascita in una pagina di giornale di fine ‘800. 

La fatphobia è anche un fenomeno razzista, perché i suprematisti bianchi collegavano il corpo grasso a un corpo nero, e quindi se ne distanziavano il più possibile, per indicare la propria superiorità. In seguito, poi, il bias è diventato anche antisemita con la propaganda ariana nella Germania nazista, che collegava il corpo grasso agli ebrei, e per questo li reputava disprezzabile.

Se superiamo i bias etnici, non c’è nessun senso concreto che la grassofobia possa assumere nella nostra società. I “motivi di salute” spesso millantati in realtà c’entrano veramente poco.

Seppur vero che l’obesità e il peso eccessivo possa portare allo sviluppo di patologie, anche gravi, in nessun caso si è giustificati a dare opinioni mediche non richieste sul corpo di qualcuno, soprattutto quando il “consiglio” è in realtà la copertura di un comportamento grassofobico. L’ultimo punto vale anche per il personale medico: la pratica del disease mongering (ovvero la patologizzazione di condizioni non realmente dannose per l’individuo nella misura espressa, ndr) è sempre più diffusa in ambito sanitario, e questo spinge le persone grasse a non ricorrere ai servizi medici perché ormai consapevoli che spesso e volentieri non verrà indagata la vera causa del loro malessere, che invece sarà attribuita immediatamente al peso, senza indagare più a fondo.

Da persona grassa, poi, sono diventato una persona “percepita” come magra. Non lo ero, sia ben chiaro, eppure quella era l’immagine che gli altri avevano di me. All’improvviso era diventato normale fare commenti sul mio stato fisico. Ricordo una specifica conversazione, dove si parlava di quanto peso avessi perso, e la signora non mi faceva neanche finire di parlare per raccontarle la mia storia medica. «Ma infatti prima eri troppo grasso e non andava bene» è stata una delle frasi pronunciate.

Quando poi qualche chilo l’ho ripreso, mesi dopo, il mio cervello si è rabbuiato, ho sentito una sensazione di fallimento, perché non riuscivo a essere come gli altri mi volevano, pensavo a quanto gli altri mi avrebbero guardato e in me avrebbero visto solo il grasso. 

Inutile dirlo: questi pensieri non mi spronano a spogliarmi davanti a una spiaggia piena di persone e buttarmi in acqua con grande spensieratezza. 

L’immagine corporea che vediamo in noi, spesso, ci disgusta solo perché pensiamo che disgusti gli altri, quando in realtà siamo noi a giudicarla per primi: non la vediamo positivamente perché siamo abituati a pensare a un giudizio negativo dall’esterno che è spesso inesistente. In quanto esseri umani siamo profondamente e indubitabilmente condizionabili dalle opinioni altrui, e non c’è niente che il movimento della “body positivity” (peraltro molto tossico, come dichiarato anche dall’attrice Barbie Ferreira) possa fare per impedirlo. Il movimento della fat acceptance, d’altra parte, forse è più utile, sostenendo quegli ideali di accettazione di tutti i corpi non conformi (compresi quelli disabili), per farci capire che lo stigma che circonda il corpo grasso è decostruibile.

In “Fatevi i corpi vostri” una diretta con la giornalista e attivista Lara Lago, che feci lo scorso anno con Gabriele Spaccini del Movimento Giovani per Save the Children, lei ci fece una domanda: «Ma a voi potrebbe mai interessare romanticamente una persona grassa?»

La nostra risposta è stata positiva, non abbiamo dovuto pensarci. Eppure io mi sono chiesto, in quanto persona grassa, cosa spingesse gli altri a rispondere di no. L’unica risposta che sono riuscito a darmi e che fosse coerente con le informazioni in mio possesso è “lo status”. Ma questo non vuol dire che sia vero: nella mia visione delle cose gli adolescenti cercando nelle relazioni (quelle superficiali, non sincere) cercano un ideale, un’immagine specifica, ispirata anche ai libri, alle film o alle serie che vedono. Il partner diventa quindi una figurina, qualcosa da esporre, un obiettivo raggiunto. In questo standard, non c’è posto per un corpo non conforme.

D’altra parte, rimane da prendere in considerazione il fattore dell’auto-giudizio di cui si parlava prima. Una persona con un DCA o che soffre di dismorfismo teme talmente tanto il giudizio da inibirsi autonomamente la possibilità di nuove esperienze anche intime. Questo input, però, raramente viene dall’esterno: molte persone, infatti, non danno importanza alla forma fisica di un potenziale partner, ad altri un corpo grasso piace. 

Nonostante ciò, però, il corpo diventa il biglietto da visita degli adolescenti, che inseguono la forma fisica perfetta per essere accettati dai coetanei, ma a cosa serve se le dinamiche romantiche e sociali non si basano realmente su questo?

Il bias etnico, il più comune alla base della grassofobia, ormai non è più consapevole, quindi è da escludere. La risposta probabilmente riguarda il contesto che frequentiamo, che sia quello reale o digitale. La cosa peggiore è che ne siamo bombardati fin da piccoli, da quando nei cartoni animati i cattivi sono rappresentati come grassi mentre la principessa, l’esempio per eccellenza da seguire, è disegnata col vitino stretto e il fisico sinuoso e il principe ha sempre l’equivalente di un pallet di acqua al posto dei muscoli addominali. 

La cultura tossica della bellezza nei confronti delle persone socializzate come donne è ormai famosa, che parlino di pubblicità di trucchi, profumi, o addirittura farmaci e assorbenti (adesso, io non ho le mestruazioni quindi forse sbaglio, ma nessuna donna che conosco ha mai sognato di andare a cavallo la mattina, sala pesi il pomeriggio e ginnastica ritmica la sera con i crampi mestruali). 

Quella maschile è più subdola, le persone socializzate come uomini amano criticare le donne in generale, ma soprattutto per il loro rapporto nei confronti delle altre donne, sostenendo che siano troppo critiche tra loro, e dal canto loro si vantano di comportarsi in maniera completamente opposta, supportando sempre gli altri uomini. Nell’ultimo periodo però, stanno trapelando sempre di più sui social gli standard tossici di bellezza maschile, soprattutto attraverso il recentissimo fenomeno del looksmaxxing (che tratta anche Elena Quadrio in un suo articolo per Cosmopolitan), che avrebbe addirittura origine sessiste. 

Nel 2024 dovrebbe essere arrivato il momento di riappropriarci dei nostri corpi, riconoscere che tutti i corpi meritano amore, sono apprezzabili e tutti i corpi sono “corpi da spiaggia”. Non serve inseguire ideali di bellezza finti, montati da ore di trucco e ancora più ore di post produzione dai grandi di Hollywood. 

In quanto giovani dovremmo essere la prospettiva futura, ma siamo ancora troppo ancorati al passato, concentrati ad afferrare ideali che non sappiamo neanche perché ci appartengono, perché tolti i “gusti personali” a cui inevitabilmente ci aggrappiamo quando ci sentiamo un po’ troppo attaccati (anche se spesso non combaciano con quelli che la società vuole imporci, portandoci a sentirci ancora più confusi riguardo a quello che vogliamo o che dovremmo volere), la linea verso la discriminazione pura rimane sottile e facile da attraversare. 

Come afferma anche Zachary Zane nella sua “biografia-manifesto” Boyslut (Abrams Image, 2023) la differenza tra una preferenza e una discriminazione riguarda quanto siamo disposti a spingerci oltre quel limite: la preferenza personale verso un corpo conforme non è strettamente condannabile a meno che il fattore del grasso, quando viene aggiunto all’equazione, porti inesorabilmente al “no” come risultato. Cosa diversa è se preferisco un corpo magro a livello di gusto personale, ma non guardo una persona grassa con disgusto solo per la forma del suo corpo. 

Quest’estate, e anche le prossime (visto che non siamo riusciti a farlo in quelle precedenti) bisogna iniziare su noi stessi un lavoro di decostruzione e de-stigmatizzazione riguardo i corpi non conformi, portare nella società il nostro contributo personale per distruggere delle regole non scritte che danneggiano tutti noi, che riguardino il peso o qualunque altra caratteristica propria del nostro essere umani. Possiamo incrementare nella nostra vita di ogni giorno un lessico meno grassofobico (ad esempio, evitare di usare la parola “ciccione”), smettere di vedere l’essere grassi come denigratorio, smettere di paragonare ogni persona con un corpo non conforme al primo personaggio grasso che vediamo in televisione o sui social, oppure ancora smettere di comprare vestiti oversize, che per noi sono una moda ma per alcuni sono l’unica possibilità di trovare vestiti. 

Ma soprattutto: possiamo smetterla di utilizzare la parola “curvy”?


FOTO – Jag tänker på mig själv – Växjö ( ‘I am thinking of myself – Växjö’) by Marianne Lindberg De Geer, 2005, outside the art museum (Konsthallen) in Växjö, Sweden