Un festival di letteratura dentro la lotta di classe
Lo hanno messo in chiaro da subito: il festival di letteratura Working Class non è un evento culturale da consumare e vivere passivamente come gli altri, ma un esplicito invito all’azione, a prendere posizione su una lotta che ormai resiste da quasi tre anni, a “dov’è l’io, fare il noi”.
Mille giorni di assemblea permanente separano questo Festival dalla mail con cui 422 operai e operaie della ex-Gkn di Campi Bisenzio sono stati informati del loro licenziamento immediato senza ulteriori specifiche, nonostante l’accordo sindacale sottoscritto con la dirigenza dell’azienda appena un anno prima e un contratto a tempo indeterminato che sembrava intoccabile.
Dopo i numerosi temporeggiamenti fatti di promesse mai mantenute, è stata fin da subito chiara la volontà di delocalizzare la produzione di semiassi per Stellantis nell’est Europa, dove si trova la manodopera a più basso costo e così vincono tutti, tutti tranne le lavoratrici e i lavoratori s’intende.
Mille giorni sono passati da da quando gli operai e le operaie del Collettivo di fabbrica, creato nel 2017, decide di occupare lo stabilimento di Campi Bisenzio dando il via ad un presidio permanente che non ha mai arretrato di un passo, nonostante i tentativi della proprietà dell’azienda che fa di tutto per far desistere la resistenza.
Hanno così iniziato a scrivere una nuova pagina del conflitto sindacale, un finale diverso per storie ormai all’ordine del giorno, di multinazionali che scelgono di delocalizzare, liquidare, vendere, chiudere in nome del progresso, di un capitale spietato che gioca con la pelle dei lavoratori e delle lavoratrici.
“Se sfondano qui sfondano dappertutto” è una frase che ricorre spesso nei discorsi del Collettivo di fabbrica, perché se passano in una fabbrica radicalmente sindacalizzata, unita e organizzata passano ovunque, se perdono loro, insomma, perdono tutti.
Le operaie, gli operai e il territorio tutto, però, non sono disposti a cedere di un millimetro in una vertenza che ha già ottenuto due parziali vittorie grazie al doppio ricorso presentato dai sindacati della fabbrica e poi accolto dal Tribunale di Firenze per violazione dell’articolo 28 dello statuto dei lavoratori, rispettivamente a settembre 2021 e gennaio 2024. Una chiara condotta antisindacale è quindi stata riconosciuta a più riprese, ma nonostante questo ad oggi i lavoratori sono ancora senza uno stipendio.
Nel frattempo la proprietà dal 2021 è passata di mano in mano in un gioco di rimpalli e rimpiattini che ha svelato l’assenza di capacità, o meglio di volontà, nel creare un necessario piano di reindustrializzazione.
Gli operai e le operaie, insieme a SOMS Insorgiamo, associazione creata nel 2022 “per suggellare l’abbraccio solidale del territorio”, come si legge sul loro sito, si rivolgono a professori ed esperti del settore nell’ambiente accademico per scrivere da zero una loro proposta dal basso e risollevare le sorti della fabbrica, il “piano delle competenze solidali” sviluppato grazie al sostegno di docenti, ricercatrici e ricercatori dell’Istituto di economia della Scuola superiore Sant’Anna e del gruppo di ricerca solidale.
Un piano che è il solo strumento per riuscire ad attivare un ammortizzatore sociale più che mai fondamentale per i quasi 200 operai a cui dal primo gennaio scorso è stato trattenuto qualsiasi tipo di salario.
Questo progetto, mai realizzato prima, prevede la rilevazione in forma cooperativistica dello stabilimento dell’ex-GKN a Campi Bisenzio per riconvertire la produzione in pannelli fotovoltaici, batterie per auto e cargo-bike a ridotto impatto ecologico dando vita alla prima fabbrica per il territorio e con il territorio socialmente integrata, completamente sostenibile e basata sul mutualismo delle realtà e associazioni che si sono strette intorno alla lotta delle lavoratrici e dei lavoratori, rendendoli protagonisti ed esecutori di una nuova idea di fabbrica e rovesciando i rapporti di forza che soffocano l’iniziativa di classe.
L’iniziativa di azionariato popolare mira al coinvolgimento diretto del territorio per creare un’alternativa partecipata e partecipativa col progetto Ex-GKN For Future che ha già raccolto oltre 700.000 euro a testimonianza del legame della lotta col tessuto sociale e di come una riconversione dal basso sia capace di parlare a tante realtà diverse.
Per questo il Festival è un atto necessario con cui gli operai e le operaie riprendono la voce riappropriandosi della loro storia perché “La lotta – citando le parole di Dario Salvetti, RSU del Collettivo – è un po’ sacrificare il tuo oggi per un futuro. Ma se tu questo futuro non lo riesci a narrare, a immaginare, anche utilizzando gli strumenti dell’arte, poi non sai più nemmeno tu chi sei e per cosa stai lottando. E finisci per non avere né il presente né il futuro”.
Non siamo qui per intrattenervi
Già l’arrivo al presidio ex-Gkn ha un sapore particolare perché la prima cosa che si vede stagliarsi è il centro commerciale più grande di Firenze i Gigli, mentre dall’altro lato della strada incombe una fabbrica sconfinata.
“Siamo qui perché vogliamo che chi è nato in case senza libri, dove nessuno ha una stanza tutta per sé, scriva la propria storia” e così tra il 5 e il 7 aprile i cancelli della fabbrica hanno accolto la cittadinanza e non solo per raccontare insieme una storia diversa.
Fino alla fine hanno cercato di sabotare il Festival per silenziarli, una “psicosi”, come l’ha definita il Collettivo, che ha raggiunto il culmine con l’attacco criminale compiuto nella notte di Pasquetta, quando sconosciute, ma consapevoli mani hanno sbarbicato la cabina elettrica dello stabilimento. E’ rimasta così al buio “la bimba che dorme”, questo è il modo in cui le operaie e gli operai chiamano la fabbrica da quel fatidico 9 luglio in cui i macchinari hanno smesso di funzionare, ma non sono mai completamente spenti, ricordando il respiro di un bambino addormentato.
“Sentiamo su di noi il respiro fetido di ambienti inquietanti” scrivono sui social e pur non conoscendo l’identità di questi strani criminali è ben chiaro un certo modus operandi che lega questo fatto ad altri strani movimenti nelle settimane precedenti il Festival in cui sono state introdotte società investigative ed elettricisti per un impianto di sicurezza non meglio specificato. Ma non è finita qui perché proprio durante i giorni del Festival un drone ha volato sopra il presidio, una trita e ritrita pratica di controllo padronale da parte di soggetti che sono arrivati a minacciare di denuncia chi avesse partecipato al Festival, primo tra tutti uno dei testimonial dell’evento l’attore Elio Germano, accusandolo senza troppi giri di parole e in modo decisamente poco lucido di associazione a delinquere a tutti gli effetti.
Sicurezza è un termine che ricorre spesso anche nei discorsi del liquidatore Gianluca Franchi, così come la legalità, accusando il Collettivo di fabbrica, la casa editrice Alegre, Soms Insorgiamo, insieme ad Arci Firenze col patrocinio del Comune di Campi Bisenzio, di organizzare un festival “illegale” e “abusivo”, criminalizzando la lotta dell’ex GKN e denunciando le loro azioni sul piano dell’ordine pubblico.
Riempire questo spazio di corpi e voci diventa quindi una risposta forte alla chiara volontà da parte della “legittima proprietà privata” di QF di svuotare lo stabilimento e dare la fabbrica in pasto al mercato immobiliare.
Per questo il Festival diventa l’atto con cui la classe operaia ribalta il tavolo delle trattative e crea un’alternativa dal basso che “si realizza in un tempo che è solo nostro” come ha detto il Collettivo sul palco.
Dario Salvetti definirà poi ironicamente “l’atto criminale più grave degli ultimi giorni” l’installazione di pannelli fotovoltaici nel giardino del Barcollo, la zona ristoro della fabbrica, che ora funziona interamente ad energia solare grazie al sostegno di operai venuti appositamente dalla Germania per “fFare luce dove loro vogliono fare il buio […] riuscendo a realizzare in una notte ciò che il capitale non è riuscito a fare in decenni”.
Questo evento si lega a doppio filo col percorso trasversale che porta avanti il movimento in relazione alla lotta climatica, l’ultimo esempio è stata la convergenza con lo sciopero globale di Fridays for Future del 19 aprile a Milano.
Eppure, nonostante tutto, l’atmosfera veniva sferzata dalla musica e dai cori che nascevano durante gli intervalli degli interventi dal palco, uno fra tutti l’intermezzo della banda militante degli Ottoni A Scoppio, un complesso musicale milanese che offre corsi di strumento gratuiti per togliere i giovani dalla strada nelle periferie della metropoli.
Un senso di appartenenza forte si avvertiva sedendosi tra il pubblico, prima perché la platea era punteggiata di maglie e felpe col simbolo del Collettivo, due semiassi incrociati con una stella al centro e un ingranaggio a forma di C sullo sfondo, ma soprattutto perché attraverso le diverse età, appartenenze e provenienze era evidente fin da subito il modo cui questa lotta ha saputo parlare a realtà e persone distanti tra loro, unite però dall’immaginare un domani diverso per la fabbrica e per il territorio.
L’impressione camminando e parlando con le persone è che non ci sia nulla come il presidio ex-GKN in Italia e forse nel mondo, non solo perché si tratta del conflitto sindacale più promettente in corso, ma anche per la capacità che hanno avuto il Collettivo e SOMS di guardare oltre la vertenza e costruire un nuovo modo di concepire la produzione e l’industria intera dare vita ad un progetto “con un significato unico nel panorama del neocapitalismo” come l’ha definito Alessandro Barbero.
L’abbraccio solidale della piana si è stretto intorno alle operaie e agli operai durante la manifestazione di sabato sera in cui vibravano nell’aria delle emozioni diverse, il corteo ha costeggiato lo stabilimento di più di 80.000 mq che sembrava non finire mai, come la rabbia operaia che si respirava all’interno, mentre le persone intonavano cori e gridavano slogan come “siamo tutti GKN” ed “è la mia fabbrica e la difenderò”, fino al centro di Campi Bisenzio attraversando le vie che si snodano tra le case silenti mentre i loro abitanti marciavano nelle strade, la rappresentazione di un senso di rivalsa che chiunque fosse lì avvertiva, la necessità di essere in quel luogo e da nessun’altra parte per un “intervento pubblico qui ed ora” come da mesi chiede il Collettivo.
E poi i tamburi che scandivano il tempo, le mani che battevano, le bandiere palestinesi che sventolavano nel cielo, perché la libertà o è di tutti o non è di nessuno, che hanno accompagnato il corteo fino al Circolo Culturale Rinascita dove si è concluso il programma della serata.
Molte erano le generazioni che hanno sentito l’importanza di una lotta portata avanti anche attraverso la cultura, duecento volontari e volontarie provenienti da tutta Italia e di ogni età dagli studenti, ai pensionati, fino ai ragazzi a cui è stato dedicato “Pischel Rebel” un programma specifico per avvicinarli ai temi di classe, ambientali, di genere e che è finito con la pittura di uno striscione e un corteo che si è snodato in mezzo alla folla. Soprattutto i figli degli operai hanno ben chiaro l’obiettivo dei genitori che cantano in corteo “noi lottiamo con orgoglio per il bene dei nostri figli”.
Durante i panel tantissimi dibattiti e riflessioni hanno riempito il palco del Festival chiamando continuamente chi ascoltava a prendere parte attiva, compiendo un viaggio attraverso le geografie e le prospettive operaie dentro e fuori l’Europa.
L’intersezionalità tra gli assi di oppressione è stato il file rouge su cui si è costruito il programma, come quella tra la classe e il genere; grazie alla storia di Tove Ditlevsen e alla Trilogia di Copenaghen si è potuta ripercorrere la sua infanzia, raccontata con una scrittura cruda e diretta attraverso il filtro dell’estrazione operaista della famiglia. Il discorso è poi stato spostato sul piano del linguaggio e di come si parla oggi o si dovrebbe parlare di working class.
Si è discusso di come la poesia operaia cinese sia stata per molto tempo resa invisibile dal regime prima e dal razzismo occidentale poi.
Ferruccio Brugnaro, uno dei poeti operai ancora in vita più importanti, ha dialogato sulla poesia operaia in Italia, tutt’oggi non del tutto riconosciuta negli ambienti accademici e successivamente si è dato spazio alla ben più radicata tradizione svedese per la quale addirittura è previsto un approfondimento nei programmi scolastici.
Dal pubblico qualcuno prende parola dicendo “quelli che oggi osanniamo come i più grandi intellettuali della Storia sono gli stessi borghesi che hanno represso le voci di migliaia di artisti e poeti operai”.
Si perchè esiste la letteratura antirazzista, femminista, queer eppure in Italia e altrove non solo non è mai stata riconosciuta in modo specifico una letteratura working class – esempio lampante è la traduzione italiana di “Manual for Cleaning Women” di Lucia Berlin in “La donna che scriveva racconti” che elimina alla radice la prospettiva con cui era stata concepita l’opera – ma si è smesso del tutto di parlare di oppressione di classe. Con un chiaro intento nasce il Festival: rimettere al centro le narrazioni della e con la classe operaia.
La casa editrice Alegre, organizzatrice del Festival, è l’unica in Italia ad avere un’intera collana dedicata alla letteratura working class. Il loro si presenta come un “progetto editoriale perseguito attraverso la pubblicazione di idee in controtendenza, inchieste scomode e letteratura sociale”, come si legge sul loro sito, mostrando come sia possibile usare la letteratura come strumento di lotta e in un Paese in cui le classi subalterne non possono leggere, figuriamoci scrivere e raccontare la loro condizione per far saltare il sistema dall’interno, aprire questi spazi è un atto di resistenza nei confronti di un mondo dell’editoria sempre più asservito al profitto.
Eppure in quest’apparente desolazione, la malinconia delle bancarelle quasi deserte al termine del Festival dopo più di 5.000 libri venduti, sono la testimonianza di quanto la partecipazione collettiva sia stata la protagonista indiscussa e questo porta con sé la riprova che cambiare le cose dal basso forse è possibile davvero.
Gli strumenti e i generi che usa la letteratura per raccontare la condizione operaia diventano quindi delle chiavi di lettura fondamentali di questo cambiamento dall’interno che fa esplodere l bolle in cui sono rinchiuse, dalla poesia, al romanzo fino alla graphic novel, passando per la musica e il teatro, prima con l’apertura del Festival dello spettacolo di Kepler scritto col Collettivo sul Capitale di Marx, poi con Storia e lotte delle Officine Grandi Riparazioni di Bologna e infine con il racconto dell’Ilva Football Club.
Nel momento in cui c’è uno scollamento tra la funzione imprenditoriale e la funzione produttiva riconnetterle con la cultura è l’unico modo per creare un cambiamento reale, agendo ed irrompendo nell’immaginario, su un piano invisibile, per questo potentissimo e impossibile da sconfiggere.
Ogni evento è collettivo proprio per ribadire che è attraverso l’arte che la working class esce dalla frammentazione e si incontra senza vergogna in un luogo che non è un setting, ma uno spazio reale e marcato in cui riscoprire le genealogie e le intersezioni per raccontarsi e smettere finalmente di farsi raccontare dall’esterno in un gioco scivoloso che compie chi sa che in qualsiasi momento quello spazio e quella voce può toglierteli.
Un’inclusione totale permeava ogni aspetto della giornata partendo dalla possibilità di comprare i libri col Bonus cultura per i giovani ed estendendosi fino ai pranzi e le cene che prevedevano sempre delle alternative vegane e vegetariane, una condivisione di cibo che crea comunità anche nella solitudine di una fabbrica chiusa al pubblico per il sabotaggio elettrico. L’organizzazione è così stata riallestita in tempi record nello spazio antistante i cancelli, uno spazio che si è riempito a tal punto che ad un tratto le sedie non sono più state sufficienti e allora le persone hanno iniziato a sedersi per terra di fronte e dietro il palco, fino al marciapiede che costeggiava la strada, quasi la metafora di una solidarietà reciproca e del calore con cui il territorio ha risposto a questa chiamata più che mai necessaria da parte della fabbrica.
“Una battaglia di dignità” come l’ha definita il sindaco Andrea Tagliaferri che gli organizzatori, ci tengono a sottolineare, è stata messa in piedi senza alcun sussidio pubblico o privato, ma grazie alla solidarietà di centinaia di persone attraverso il crowdfunding.
Una risposta che è arrivata anche dal mondo dell’arte come uno scambio in cui le operaie e gli operai lottano e gli artisti si stringono a loro, proprio all’interno del presidio nasce “Ivan” una canzone scritta da Tenore Fi e che canta di questa “fabbrica dismessa che non mollerà”, dalla nazione arriva il sostegno dei Bandabardò con Cisco e gli Extraliscio con “Domenica” che parla di crisi sociale e il cui videoclip è girato nello stabilimento, ma addirittura l’appoggio ha attraversato il mare grazie alle parole di Ken Loach.
Nonostante la stanchezza palpabile dopo anni di una vertenza che l’azienda sta cercando di uccidere con la strategia della fame, c’è una chiara idea di come vada costruito un futuro diverso da parte del Collettivo e di Soms attraverso una lotta che è l’orgogliosa resistenza di una classe operaia che sfida gli ideali neoliberisti per rovesciare il paradigma dell’industria. Eppure quello che sta facendo l’ex GKN non vuole essere un modello, ma un esempio di come un domani diverso si può e si deve prima sognare e poi immaginare. E non è un caso se il libro di Valentina Baronti, nato davanti ai cancelli della Gkn, si intitola proprio “La fabbrica dei sogni”.
Questo Festival è la dimostrazione tangibile che il conflitto sindacale che utilizza gli strumenti dell’arte ha un significato diverso ed è proprio questo a far paura, lo spauracchio degli oppressi che si scrollano di dosso la vergogna e si trovano tutti insieme per dibattere, cantare, manifestare, sognare e lottare, “fino a che ce ne sarà”.
E se il domani fosse questo?
E se il futuro cominciasse ora?