Trovare una risposta nella storia degli uomini…
Dicono che l’antropologia sia una pseudo-scienza, come dargli torto, quando il soggetto degli esperimenti è una specie che cambia in continuazione, si adatta, si evolve, ma allo stesso tempo commette gli stessi errori fatti precedentemente, cade nelle stesse trappola, rendendo quindi gli esperimenti il meno ripetibili possibile. Eppure, sembra essere uno dei migliori metodi per comprendere l’uomo e la sua storia: fare antropologia non significa trovare una giustificazione alle disuguaglianze, ma per conoscerne l’origine, per scovare metodi antichi per risolvere moderni problemi… e di questo abbiamo parlato con la dott.ssa Valentina Porcellana, esperta di Antropologia della Complessità e docente all’Università della Valle d’Aosta oltre che promotrice del progetto “Costruire bellezza”…
Le migrazioni hanno sempre influenzato l’evoluzione dell’uomo, portando allo scenario etnico e culturale che conosciamo oggi… i motivi delle migrazioni sono tanti, e in questo numero, per esempio, parleremo dei migranti climatici: dalla sua esperienza, qual è il rapporto tra uomo, migrazioni e, in particolar modo, il cambiamento climatico?
Partiamo da un altro presupposto: io mi occupo di antropologia alpina, di comunità che vivono nelle cosiddette terre alte, in particolare nelle Alpi, che possono essere un esempio meno conosciuto ma molto originale, in cui la tematica delle migrazioni è interessantissima, a causa dello stretto legame tra esseri umani e montagna, che è un ambiente molto difficile da abitare e per questo l’uomo si mette in dialogo con la natura, una cosa abbiamo sempre fatto: l’uomo si è adattato ma ha anche adattato l’ambiente in cui vive, una sorta di co-costruzione, che fino ad un certo punto era una relazione di equilibrio: la Natura dava di che vivere all’uomo e l’uomo si prendeva cura della Natura. Quello che è successo è che, oggi, abbiamo preso il sopravvento.
Detto questo, non è solo una questione legata alle catastrofi climatiche, perché l’uomo, nella sua storia, non si è spostato solo per questioni ambientali, ma perché è curioso, intraprendente e ha costruito, grazie alle sue capacità intellettive, degli utensili per scalare le montagne o per solcare i mari, per raggiungere posti incredibili. Abbiamo sempre vissuto epoche di grandi e piccola glaciazione e grazie a quelle zone del mondo sono diventate più accessibili, come possiamo vedere nel caso delle Alpi, ed erano liberi di scoprire nuove cose. Il punto è che l’uomo, in condizioni normali, non si muove per scappare, si muove prima di tutto per scoprire, per amore, per costruire un futuro, ma in certe circostanze, che sono diventate sempre più numerose, si è spostato anche per necessità, per guerre, carestie, disastri ambientali. Anche le migrazioni verso l’Europa nascono, oltre che dalla fame, dal desiderio, dal diritto ad aspirare. Facciamo due noti esempi: la famosa Lucy, probabilmente non era partita per la paura o per la mancanza di qualcosa, ma per la curiosità di scoprire; Otzi, invece, che abbiamo trovato nelle Alpi, è stato ucciso da qualcuno. Non è che in antichità non mancassero i conflitti, così come adesso non è che non ci siano persone che scappano da casa loro, ma ci tengo a sottolineare che questi milioni di rifugiati non arrivano tutti in Europa, ma magari si spostano tra paesi africani per esempio, per esempio alle porte del Kenya ci sono milioni di rifugiati provenienti dai paesi limitrofi, per questo quando si parla di invasione, bisogna evitare immagini catastrofiche perché le persone si muovono per motivi diversi, in luoghi diversi e in momenti diversi. Le disuguaglianze forti le abbiamo create noi, non la Natura: il fatto di avere un passaporto che ci permette, partendo dall’Europa e dal Nord America, di muoverci dappertutto, dall’Africa all’Asia, dalle Americhe all’Estremo Oriente non è un diritto così scontato nella direzione inversa, ma non è perché c’è di mezzo il mare o i mezzi inadatti, ma perché c’è di mezzo l’uomo…
Lei, che si occupa di Antropologia della complessità, ci fa ben capire che ci sono svariati e complicati motivi per cui gli uomini si spostano, alcuni di matrice ambientali, altri no, ma dobbiamo essere noi uomini a dare la possibilità e di creare le giuste condizioni di restare nella propria terra, ma allo stesso tempo di potersi spostare, in sicurezza, di costruire il proprio futuro altrove, altrimenti non è solo un ostacolo all’arricchimento culturale dei Paesi, ma anche alla storia dell’uomo, che è un animale errante… Abbiamo detto che l’uomo è stato in grado di costruire strumenti e tecnologie per salpare i mari e scalare le montagne… come incide, in un’epoca sempre più digitale come la nostra, il divario tecnologico?
Il divario tecnologico non è solo tra il Nord e il Sud del mondo, ma all’interno dei Paesi stessi, tra una zona più isolata e non raggiunta da infrastrutture e una più centrale, dopodiché il divario tecnologico riguarda anche la disuguaglianza sociale: bambini che appartengono a famiglie che hanno un certo reddito possono avere delle risorse diverse rispetto a quelli appartenenti a famiglie meno abbienti. Si tratta di connessione tecnologica ma non è solo quello: il vero divario è un insieme di possibilità di immaginazione. La tecnologia è uno dei modi con cui possiamo viaggiare stando fermi, connettersi agli altri, ma anche leggere un libro, vedere una mostra, fare attività fisica; all’interno della stessa classe ci possono essere bambini che hanno opportunità molto diverse. Si leggono tanti elogi al mondo analogico, ma il punto non è quello, perché dovremmo rinunciare alle nuove tecnologie? Perché dovremmo tornare all’età della pietra? [L’esempio non è casuale, ride ndr] Il punto è usarle con intelligenza e che più persone possibili abbiano accesso a queste tecnologie, e di poter andare oltre. La fortuna della mia generazione è quella di aver vissuto il passaggio dal mondo analogico al mondo digitale, quando invece c’è la nuovissima generazione che non ha vissuto l’analogico, non che questa cosa sia un bene o un male di per sé, ma l’aver visto i due mondi diversi, cosa che ci aiuta a fare anche l’antropologia, è interessante, perché aiuta a metterci nei panni di chi ha fatto esperienze diverse dalle nostre, per farci capire che ci sono più soluzioni a un problema. Il punto è sempre quello, renderci conto che non è solo la tecnologia a poterci dare le risposte, anzi la cosa più importante è la relazione con gli altri esseri umani o con gli altri esseri viventi.
Proprio a proposito di questo: il suo progetto laboratoriale “Costruire bellezza” mira proprio a costruire relazioni… come si fa a superare le disuguaglianze, a costruire una comunità, una casa comune?
Le comunità di cui parlavo prima facevano tutto quanto insieme, quando veniva giù una valanga, quando dovevano pulire il bosco o l’alveo del fiume, oppure fare il pane, lo facevano tutti insieme. Bisogna trovare dei modi creativi per risolvere problemi comuni ma rendersi conto che da soli non ce la facciamo, perché io magari so fare una cosa ma non quell’altra che magari sa fare qualcuno che è vicino a me. Rendersi conto che cooperare, fare le cose insieme, condividere un certo percorso, è molto più divertente che fare le cose da soli, è più facile e c’è meno dispendio di energia e di tempo. Questo è quello che possiamo imparare dalle società che hanno calpestato la Terra prima di noi: fare tutto insieme. Poi non è che non ci fossero conflitti, gelosie, non era un paradiso terrestre, alla “Love is in the air”: magari uno dei motivi per cui ci si spostava, è che quando si era giovani e si apparteneva a una piccola comunità, quella ti soffocava e avevi bisogno di altre opportunità, allora c’è bisogno di non sentirsi soli. Costruire bellezza è proprio questo: persone molto diverse tra di loro, per età, provenienza e esperienze di vita fanno delle cose insieme; l’idea è molto semplice ma i risultati sono molto interessanti perché non siamo più abituati: il modello capitalistico ci spinge a dovercela fare tutti da soli, in competizione con gli altri, io contro tutti gli altri, mentre invece dovremmo fare con gli altri: non è detto che tutti siano adatti, che si divertano a competere (pensando a un riferimento nostrano: Sinner magari si diverte nella competizione, ma non possiamo essere tutti Sinner), non possiamo essere tutti primi, ma questo non significa che dobbiamo essere gli ultimi, vuol dire trovare il proprio posto, il non sentirsi obbligati a seguire un modello che non è per niente unico.
Il fatto che ognuno debba trovare il proprio posto è sinonimo di inclusione, il tema del nostro editoriale: l’inclusione non è mettere insieme delle parti, ma fare in modo che ognuno trovi il proprio posto nella società, purché tutti abbiano la possibilità e la libertà di esprimere la propria idea e il proprio desiderio.
Tornando all’esempio di Sinner, che spesso ha ringraziato i genitori per la libertà di esprimersi che gli hanno dato, è anche grazie agli altri che noi possiamo esprimerci al meglio, alle possibilità economiche, sociali e politiche offerte. E’ chiaro che sia un’utopia, è chiaro che chi parte da una situazione più disagiata avrà più difficoltà a trovare il proprio posto: i figli degli immigrati vengono sempre mandati agli istituti professionali, come se dovessero andare a lavorare immediatamente, non lasciando spazio alla loro istruzione per fargli inseguire un futuro prestabilito, da altri… gli si tarpano le ali dalla partenza e questo è molto rilevante. Molti studi evidenziano che figli di immigrati, ma anche persone provenienti da altre regioni d’Italia, sono indirizzati a obiettivi che magari non esprimono al massimo le loro potenzialità, ma a degli obiettivi che si pensa possano essere più raggiungibili a loro. Se uno viene messo nella condizione di dare il massimo, darà il massimo. Costruire bellezza è basato sul concetto della bellezza di Dostoevskij, dell’equilibrio con sé stessi e con gli altri, l’armonia, del manifestarsi del bene: il sentirsi bene e di potersi esprimere al meglio, ognuno col proprio tempo, al di là della competizione.
Seppure questa non sia la soluzione definitiva, almeno una chance dovremmo dargliela, e darcela: costruire dei luoghi, opportunità, esperienze in cui sperimentare questo stare bene, questo stare insieme, come accade nel nostro Spazio Giovani di Save The Children… Più si moltiplicano questi spazi, più le persone scoprono qualcosa di sé stesse.