Il classismo della crisi climatica
L’emergenza climatica è un problema di classe ed economico ancora prima che ambientale. Le associazioni attive sul campo lo ripetono da anni, ma Stati, governi e corporazioni spostano sempre il focus sulla biodiversità.
D’altra parte, se il problema climatico fosse un problema esclusivamente ambientalista le risoluzioni politiche sarebbero immediate, invece ci troviamo davanti all’ignavia dei governi, che preferiscono l’odore del denaro a quello dell’erba pulita.
Per quanto le istituzioni negli ultimi anni stiano facendo molti passi avanti, basti vedere i tentativi di dialogo molto più numerosi rispetto al passato, come i tavoli di discussione con le associazioni o gli incontri intergovernamentali (come UNCED o COP), il fattore economico rimane un fattore estremamente limitante: nessuno dei “potenti”, infatti, ha intenzione di affrontare nel suo paese e nelle sue aziende un crollo economico (seppur relativo) per tutelare l’ambiente e fare un passo verso la sostenibilità.
L’Italia, che in ottica internazionale si sta trasformando in un importantissimo “hub climatico”, per l’attivismo, l’advocacy ma anche per le iniziative dei ministeri (come la Youth4Climate) non si sbilancia ancora quanto dovrebbe per la tutela del patrimonio ambientale.
Sono anni, infatti, che vediamo come ENI, Iren e Enel, aziende energetiche che fanno del Greenwashing (usare la sostenibilità e la crisi ambientale a unico scopo promozionale, senza agire realmente per contrastare il fenomeno o addirittura peggiorandolo a causa delle loro emissioni, ndr) la loro prima arma, sponsorizzare eventi di importanza nazionale in ogni campo. Quest’anno la presenza l’abbiamo notata in ambito musicale con Il Festival di Sanremo, che con Plenitude, Enilive, Generali, Costa e Coca-Cola si merita il titolo di Kermesse del Greenwashing, e con il concertone del Primo Maggio sponsorizzato da Enjoy, Plenitude, e Intesa San Paolo.
Il clima, per l’Italia, rimane quindi un fattore di propaganda politica. D’altronde, non ne siamo uno dei paesi più colpiti.
Se da una parte le estati nel nostro paese si fanno sempre più torride e afose, in quelli africani, che sono nel complesso responsabili “solo” del 4% delle emissioni (dati ONE Campaign), l’emergenza climatica impatta significativamente sulla vita delle persone del posto. Le alluvioni pregiudicano il diritto a una vita sicura sancito dall’Articolo 3 e dall’articolo 25 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, così come le guerre a causa della scarsità di acqua e di cibo. Il diritto all’istruzione, inoltre, viene fortemente minacciato dalla crisi climatica. Secondo un’analisi di Save the Children Italia, infatti, i bambini nati nei paesi più poveri (che hanno quindi già un accesso limitato all’istruzione), che come abbiamo già affermato sono quelli più impattati dal cambiamento climatico, hanno un accesso ancora più limitato alle scuole a causa delle carestie, delle siccità, delle guerre e dei disastri ambientali, vedendo quindi violato il loro diritto all’istruzione sancito dall’articolo 26 della Dichiarazione Universale.
Secondo il report “Born into the Climate Crisis” di Save the Children, il 50% dei paesi al mondo, quelli economicamente più potenti, sono responsabili dell’86% delle emissioni di CO2 globali, mentre l’altro 50%, composto dai paesi più poveri e da quelli in via di sviluppo, è responsabile solo per il 14% delle emissioni.
Lo stesso report, inoltre, indica come per una persona nata nel 2020 sia dal 2% al 7% più probabile essere coinvolto in disastri climatici, a partire da incendi boschivi, passando per perdita dei raccolti, siccità, alluvioni fino ad arrivare alle ondate di calore.
In un altro report, Generation Hope, viene evidenziato come le emissioni dell’1% della popolazione, composto dalla fascia più ricca, sia il doppio più alto rispetto al 50%, appartenente alla fascia più povera e proletaria.
Le classi sociali più povere sono quindi, dati alla mano, quelle più impattate dal cambiamento climatico, ma non solo: l’altra discriminazione messa in atto dalla crisi ambientale è quella ageista. I bambini e i giovani solo quelli più impattati dal cambiamento climatico, perché da più tempo vivono in condizioni disagiate per colpa delle scelleraggini ambientali commesse dagli adulti per il riscontro economico, e allo stesso tempo la loro voce è la meno ascoltata sull’argomento, nonostante i tantissimi movimenti di attivismo giovanile che si stanno attivando negli ultimi anni, come Fridays for Future, XR, YOUNICEF o il Movimento Giovani per Save the Children.
La crisi climatica, quindi, non danneggia solo l’ambiente naturale in cui viviamo, ma anche la nostra economia, le nuove generazioni, le società in cui viviamo e le nostre opportunità per il futuro. È una crisi profondamente discriminatoria, simbolo ancora una volta dell’importanza della lotta proletaria e di quella subalterna, due comunità schiacciate dagli extra ricchi e dai governi ormai non solo nel lavoro, nell’economia e nella libertà di espressione, ma anche nell’emergenza ambientale, subendo ancora una volta le conseguenze dei peccati di chi si adagia nella comodità dell’essere nell’1% delle persone più ricche al mondo.
Le fonti sulle analisi e i report di Save the Children Italia sono stati forniti dal dipartimento di advocacy dell’organizzazione, che ringraziamo per il contributo