All’Università degli Studi di Milano cresce il numero degli studenti “ristretti”
Sempre più atenei collaborano con gli istituti penitenziari italiani per migliorare l’accesso agli studi universitari e per portare sempre più studenti delle università fra le mura delle carceri.
Li chiamano così. Ristretti. Non “detenuti”, non “carcerati”, non “criminali”. Ristretti perché ciò che li caratterizza è la privazione di libertà, ma senza alcuna altra connotazione.
Il numero delle persone detenute è in continuo aumento. Secondo il XIX Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione in Italia durante l’anno 2021-2022 (ancora non sono disponibili dati più recenti), i detenuti al 30 aprile 2022 erano 56.674, di cui 2.480 donne e 17.723 stranieri. Poiché la capienza ufficiale di posti disponibili nelle carceri sul territorio italiano è di 51,249, è evidente che si è di fronte ad un fenomeno di sovraffollamento, a più riprese già criticato da numerosi accademici e giornalisti.
Secondo il rapporto, inoltre, la possibilità di prendere parte a corsi ed esami universitari è tendenzialmente un esempio in cui l’Italia pare essersi distinta, rispetto ad altri paesi. Ben 43 università pubbliche hanno sviluppato i cosiddetti Poli Universitari Penitenziari, organizzati nella Conferenza Nazionale dei Poli Universitari Penitenziari (CNUPP) istituita presso la CRUI (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane).
Secondo il bilancio di monitoraggio 2021-2022 della CNUPP, ci sarebbero 1.246 studenti universitari iscritti a corsi di laurea, di cui 1.201 uomini e 45 donne. Tra questi 1.114 sono detenuti in 91 istituti penitenziari e 132 in esecuzione penale esterna. Ci sono poi 449 studenti in regime di alta sicurezza e 33 sottoposti al regime previsto dal 41-bis. Si tratta comunque di numeri in continuo aumento.
Tra le università che più si sono distinte nell’ambito dell’istruzione universitaria in carcere, vi è indubbiamente l’Università degli Studi di Milano. I dati di monitoraggio della CNUPP parlano chiaro: durante l’anno scolastico 2023-2024, ormai prossimo alla fine, il totale degli iscritti era 159, di cui 150 uomini e 9 donne. Fra questi 113 si trovavano in media sicurezza, 46 in alta sicurezza, 5 in regime di 41-bis, 17 scontavano misure alternative e 1 in IPM (Istituti Penali per i Minorenni).
In generale, emerge come la fascia d’età maggiormente interessata al mondo universitario sia quella delle persone maggiori di 46 anni, in particolar modo fra i 51 e i 55 anni, e gli over-60. Non c’è da meravigliarsi considerato che sia anche la fascia più cospicua di detenuti fra le varie fasce d’età.
È bene sottolineare che l’Università degli Studi di Milano collabora con numerosi istituti penitenziari presenti in tutto il territorio lombardo, e non solo (anche se nell’ultimo anno ci si è limitati alla Lombardia). Tra gli istituti con più iscritti spiccano la Casa di Reclusione di Milano Bollate, la Casa di Reclusione di Milano Opera e la Casa Circondariale di Voghera.
Ma cosa fa davvero la differenza? Stefano Simonetta, referente d’ateneo per il Progetto Carcere presso l’Università degli Studi di Milano, afferma che gli obiettivi del progetto sono quattro: portare la cultura universitaria in carcere, contribuire all’educazione dei detenuti affinché il reinserimento nella società porti ad una maggiore sicurezza, garantire un diritto laddove se ne è sacrificato un altro (la libertà) e – infine – fornire un’esperienza formativa per gli studenti affinché possano conoscere in prima persona la realtà del carcere, senza i filtri del pregiudizio.
Al fine di raggiungere questi obiettivi, il progetto si avvale di tre strumenti. Il primo, e più noto, è il servizio di tutoraggio. Gli studenti dell’università che vogliono aderire si offrono volontari per prenderne parte e poi, di volta in volta in base alle necessità di ogni facoltà, ogni volontario può chiedere di essere assegnato ad uno studente ristretto. Si tratta di un’idea che ha preso piede velocemente e in 27 dei 31 dipartimenti dell’Università. Nel complesso, sono stati coinvolti 38 corsi di laurea. Fra questi, quelli con più iscritti sono stati Filosofia (23), Scienze politiche (21), Scienze umanistiche per la comunicazione (18), Scienze dei Servizi Giuridici (15) e Giurisprudenza (12).
Lara, tutor di Fabio – uomo quarantenne e studente di Giurisprudenza detenuto presso la Casa Circondariale di Pavia – ci racconta che la sua esperienza è stata molto formativa. Non solo Fabio si è rivelato uno studente particolarmente brillante, che ha dato esami su esami senza mai perdere la sua grande capacità critica nei confronti delle istituzioni, ma le ha anche dato validi consigli su esami che lui aveva già sostenuto e lei ancora no. In sostanza si è creata una bella collaborazione.
Nonostante ciò, Lara rivela che le difficoltà per l’ingresso in carcere e il supporto concreto allo studente sono ancora molte. Gli uffici educativi spesso non rispondono tempestivamente, altrettanto spesso cambiano gli impiegati che vi lavorano e i punti di riferimento, e non è da escludersi che visite programmate da giorni non risultino poi dai registri e rendano difficile l’accesso in un luogo già di per sé impenetrabile.
Il secondo strumento del progetto, sono i corsi e i laboratori che vengono tenuti dai professori all’interno delle mure carcerarie. Abbiamo parlato con Melania, che ha preso parte al laboratorio “a la guerre comme à la guerre”: trucchi, inganni, proteste e pretesti nei conflitti del xx secolo, tenuto dal Professor Graglia, della Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali. Melania riporta che sono stati affrontati temi di grande valore storico, fra cui la sconfitta italiana ad Adua e gli stratagemmi della Guerra del Vietnam e che tutti hanno sempre partecipato con entusiasmo. Dopo le prime lezioni, ormai si conoscevano i nomi di tutti gli studenti – ristretti e non ristretti – e ci si confrontava sui temi del corso. Seppur con tutti i limiti del caso e la costante sorveglianza della polizia penitenziaria, si è riusciti a passare dei bei momenti e ad imparare tanto l’uno dall’altro.
Infine, l’ultimo strumento da citare è indubbiamente il Bard Prison Project. Si tratta di un progetto che è partito da Open Society University Network (OSUN) e Incarceration Nations Network (INN), che realtà che si preoccupano di promuovere la formazione universitaria nelle carceri. L’Università degli Studi di Milano collabora infatti con la casa di reclusione di Milano Bollate nella gestione di un servizio di tutoraggio gratuito da parte di studenti universitari ristretti nei confronti di studenti delle scuole superiori o di istituti universitari che abbiano difficoltà nello studio e necessitino di sostegno. Questi studenti, oltre ad aver ricevuto una formazione didattica specifica, sono tutti detenuti in articolo 21 che operano presso la sede dell’università e con l’aiuto di studenti e professori non detenuti.
Il diritto allo studio è una delle basi di uno stato democratico ed è imprescindibile che continui ad essere garantito e si estenda a sempre più istituti penitenziari, affinché essi diventino effettivamente il luogo di “rieducazione” che richiede l’art.27 comma 3 della Costituzione, ma anche la Corte Europea di Giustizia dell’Uomo, che ha più volte sanzionato il nostro paese per la sua incapacità di garantire un effettivo reinserimento nella società dei detenuti e non è stato in grado di arginare il fenomeno della recidiva efficacemente. Ma la speranza non si spegne. Qualche anno fa è stato realizzato per la prima volta in Italia un progetto con ergastolani in regime di 41-bis. Si trattava di “l’attesa e la speranza”, un laboratorio di teatro e filosofia della durata di un anno e che includeva anche una ventina di studenti esterni presso la Casa di Reclusione di Milano Opera. Si tratta di un nuovo muro che è stato abbattuto, e la speranza è che sempre più muri possano essere abbattuti e che l’Università pubblica diventi sempre di più un luogo di scambio, inclusione e incontro per studenti provenienti da realtà e mondi unici e diversi.
In un mondo che spesso invoca il fatto di chiudere la porta e buttare la via chiave, noi invece si vada a raccoglierla quella chiave per provare a contribuire – per quanto possibile – al reinserimento sociale delle persone che sono ristrette, come peraltro previsto dall’art.27 della Costituzione.
(Stefano Simonetta, referente d’ateneo per il Progetto Carcere presso l’Università degli Studi di Milano).