Un soffio di natura nel nostro guardaroba
Ci ricordiamo quando alla Scuola Primaria ci hanno insegnato come i Fenici esplorarono e intrapresero una fiorente opera di commercio grazie alla loro capacità di tingere i tessuti con la porpora?
Prendere esempio da questo aspetto storico può essere una buona strada per venire incontro alle oramai necessarie ed emergenti esigenze di contrasto all’inquinamento globale.
Nel 2011 un’ azienda inglese scoprì che lo Streptomyces Coelicolor ( un batterio produttore di pigmenti) si poteva utilizzare per tingere i tessuti in nuance differenti, tra il rosa e il blu. L’utilizzo di questo batterio di grandi potenzialità cromatiche consuma cinquecento volte meno acqua rispetto ai procedimenti comuni ed elimina le sostanze chimiche dannose per l’uomo e l’ambiente.
Recentemente una start-up di Melfi, in Basilicata, ha scelto di utilizzare materiali naturali – come fondi di caffè, bacche di sambuco, mosto di Aglianico – anche nel settore della bioedilizia.
Queste aziende sono il vero sospiro di sollievo che consentono a tutti, interessati o meno a questa tematica, di avere una visione innovativa su come si possa conciliare la sacrosanta esigenza a vestirsi con i parametri di rispetto dell’ambiente, tanto cari all’Agenda dell’Organizzazione delle Nazioni Unite 2030.
L’economia circolare e la produzione a scarto zero sono ormai diventati non solo obiettivi ambiziosi da raggiungere, ma quasi un obbligo morale verso la nostra madre terra, che soffre tanto.
Riflettiamo attentamente sul fatto che l’acqua consumata negli stabilimenti di tintura è destinata ad essere classificata come “acqua di scarto non potabile”: un mix altamente tossico a base di alcali, metalli pesanti e altre sostanze chimiche utilizzate per fissare i colori sui nostri capi il cui impatto sull’ambiente è tremendamente pericoloso.
C’è da considerare tuttavia che per generare un’inversione di tendenza fra la chimica impegnata nella tintura di abbigliamento e l’utilizzo di materie prime naturali (magari di scarto, come la start-up di Melfi) è necessaria una precisa opera di transizione ecologica, progressiva e attenta alle esigenze economiche e sociali di chi vi è impiegato.
Le tintorie che fanno dei coloranti chimici il loro core business rappresentano una fonte di occupazione e reddito (sostentamento) in molte economie emergenti e assolutamente significative, come l’India e il Bangladesh, con l’80 per cento della manodopera mondiale impiegata nell’industria dell’abbigliamento costituita da donne. Il più delle volte sottopagate e con assoluta carenza dei diritti minimi che dovrebbero essere patrimonio universale e condiviso.
L’orizzonte di un ritorno alla natura, per quanto riguarda il settore del colore e delle sue infinite applicazioni, sta producendo non solo una tendenza, ma un dibattito sentito sulla cosiddetta rivoluzione green di cui abbiamo tanto bisogno.
Questa tendenza è, in realtà, recuperare la sapienza dei nostri progenitori, i quali sin dalla notte dei tempi si rivolsero alla natura per vivere una vita a colori.
Tornando all’esempio dei Fenici, migliaia di anni fa l’uomo imparò ad estrarre la porpora dal mollusco gasteropode. Grazie ad esso si potevano confezionare pepi dalle molteplici sfumature che, in base alle preparazioni, variano dall’arancione al rosso porpora, appunto, dal brunastro a quel blu-viola che si otteneva esclusivamente con la porpora di Tiro o di Bisanzio, più costosa persino dell’oro.
Come si riusciva ad estrarre il loro purpureo segreto?
Innanzitutto per catturarli si immergevano canestri di sparto con avanzi di pesce come esca; raccolta una quantità sufficiente di murice, lo si teneva in vita in vasti contenitori o stagni artificiali pieni di acqua marina, per cavarne la ghiandola mucosa mediante uno speciale utensile in ferro o bronzo oppure oppure pestando i campioni più piccoli sino a trasformare tutto l’insieme in un ammasso pastoso; quanto estrapolato si metteva quindi in una grande vasca di stagno con acqua salata, che veniva riscaldata per dieci giorni: così, piano piano, ne filtrava un composto incolore che, grazie ad una complessa reazione fotochimica, diventata porpora appena riesposto all’aria ed al sole. Per concludere, bastava immergere i tessuti nel liquido e lasciarli asciugare ai raggi solari.
Questa pratica è andata perduta nel bacino del mediterraneo, dal Medioevo e fino al 1833, quando venne riproposta dal valente chimico Bartolomeo Bizio in un suo noto saggio, mentre è tuttora in auge presso alcune popolazioni indigene dell’Oriente asiatico.
La cocciniglia del carminio è invece un insetto le cui femmine secernono un fluido molto denso e tinteggiato che impiegano per difendersi dai predatori, l’acido carminico. Se ne estrae il colorante, il carminio appunto, conosciuto anche con gli appellativi di rosso cocciniglia o semplicemente cocciniglia.
La cocciniglia, tra l’altro, ha un ruolo molto importante nel mondo dell’iconografia, che sfrutta la pienezza del rosso per l’attività di scrittura delle icone.
Questo parassita è originario del Messico e del Perù, la sua etimologia deriva dal termine spagnolo cochinilla (in spagnolo “porcellino di terra”).
Per passare dal mondo della fauna a quello della flora, come non citare il fatto che tra le piante tintorie prevalgono il guado e l’indaco da cui si ottenevano quei coloranti azzurri che, costosissimi, erano un tempo prerogativa delle élite.
Il guado è una pianta di origine asiatica che è stata introdotta in Italia dai Catari, stabilitisi a Chieri, in Piemonte.
Di certo è proprio nel triangolo fra le limitrofe località francesi di Tolosa, Albi e Carcassonne che tale coltura era attecchita, alimentando quella florida produzione di “blu pastello” che aveva restituito prosperità a regioni un tempo poverissime e improvvisamente divenute il Paese della Cuccagna (dal francese cocagne, nome con cui veniva commercializzato), per poi diffondersi sullo Stivale, specialmente nelle Alpi Occidentali e Marittime, in Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo, ma pure in Sicilia, Sardegna e nel trevigiano.
La formula di preparazione era la seguente: dalle foglie raccolte dopo il primo anno di vita, macerate e fermentate in acqua, si perveniva ad una soluzione verde-gialla che, regolarmente mescolata ed ossidata, cominciava a diventare blu-viola dando luogo ad un colorante (da cui si ricavava non solo ogni sfumatura di blu ma anche ulteriori tinte mescolandole ad altri colori naturali) molto solido e idoneo alla tintura di lana, seta, cotone, lino, juta e persino della tela destinata ai blue jeans (la cui loro produzione tradizionale consuma grandi quantità di acqua), oltre che per dipinti e arazzi rimasti inalterati da secoli.
Questo “oro blu”, con la sua straordinaria storia e pregevolissima manifattura, è stato recentemente riscoperto nelle suddette, storiche contrade (ma peculiarmente sull’Appennino umbro-marchigiano), per le quali ciò può di nuovo rappresentare un eccellente business.
L’indaco tintoria, invece, cresce spontaneamente in India, Cina, Giappone, America Meridionale ed Africa e si estrae attraverso un lungo procedimento.
Conosciuto in Asia già 4000 anni fa, la sua preparazione artigianale, ai nostri giorni, è rintracciabile in Cina, Corea e India. In Sahel e Mauritania è il colore per antonomasia; i Tuareg vengono infatti chiamati “uomini blu” perché lo usano per le tuniche (burnus) che, tingendo a poco a poco la loro pelle, li ricoprono completamente, proteggendoli dalle intemperie. In Sicilia venne comunemente utilizzato in tutte le case fino agli anni Sessanta.
Questa polverina veniva sciolta nell’acqua da bucato in piccole dosi per coprire il giallognolo accumulato sulla biancheria che, dopo il risciacquo, veniva sciorinata al sole, presentandosi di un candore abbagliante.
Queste tradizioni sono di stimolo per quelle aziende che mirano a creare una corporate identity che sia veramente al passo coi tempi.
Un tempo che non è un’ epoca di cambiamenti ma un cambiamento d’epoca dove la responsabilità ambientale si trasforma in principio di sussidiarietà a favore delle generazioni future.
Amo i colori, tempi di un anelito
inquieto, irrisolvibile, vitale,
spiegazione umilissima e sovrana
dei cosmici perché del mio respiro.
Alda Merini